Il ritorno del brontosauro e altre novità dal mondo dei sauropodi

Daniele Tona – 17 ottobre 2016

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Quando si menziona la parola “dinosauro” la rappresentazione che l’immaginario popolare associa ad essa è quasi sempre una fra due opzioni: la prima è Tyrannosaurus rex, più o meno paleontologicamente accurato a seconda di quanto si è documentato colui che visualizza l’animale; la seconda è quella di un rettile immenso, con il corpo massiccio di un elefante sorretto da zampe colonnari, un collo di lunghezza impossibile sormontato da una testolina apparentemente troppo piccola per governare un corpo di siffatta mole, e infine una coda altrettanto se non più lunga che in base alla correttezza della raffigurazione può essere trascinata come un immane peso morto oppure sventolata come una smisurata frusta.

Quest’ultima rappresentazione descrive più o meno sommariamente la quasi totalità delle specie appartenenti a uno dei principali gruppi di dinosauri: parliamo ovviamente dei sauropodi, parenti stretti dei teropodi all’interno dei dinosauri saurischi che tuttavia non potrebbero essere più diversi dai loro cugini bipedi e (quasi tutti) carnivori.

Nel corso dell’era Mesozoica i sauropodi sono stati una componente significativa degli ecosistemi, diffondendosi in tutto il globo fino al loro apogeo alla fine del Giurassico; nel Cretaceo scomparvero in Asia e in Nordamerica, là dove furono soppiantati dagli ornitischi, ma nel resto del mondo rimasero i vegetariani più importanti sino alla fine del Mesozoico. Inoltre i sauropodi sono uno dei gruppi più longevi di dinosauri: le forme più antiche risalgono al Triassico Superiore, come Melanorosaurus del Norico, e se ci si allarga al più ampio gruppo dei sauropodomorfi – comprendente anche specie un tempo riunite nel gruppo a parte dei “prosauropodi” che oggi si pensa fossero una serie di forme di intermedie sulla strada verso i sauropodi in senso stretto – le loro radici affondano addirittura nel Carnico, circa 230 milioni di anni fa.

Eppure, benché i sauropodi siano stati studiati in dettaglio fin dagli albori della paleontologia dei dinosauri, ogni anno le nuove scoperte su questi animali non mancano, e talvolta giungono da luoghi e fonti impensate. In questo articolo vogliamo soffermarci in particolare su due di esse, entrambe molto recenti, che hanno riportato in vita animali considerati estinti da tempo immemore in modi diversi ma ugualmente sorprendenti.

 

Apatosaurus louisae al Carnegie Museum di Pittsburgh

La prima ricerca che andiamo a vedere, seppur solo brevemente poiché si tratta di un lavoro immenso, è il lavoro di Emanuel Tschopp, Octavio Máteus e Roger B.J. Benson del 2015, pubblicato su PeerJ. Lo menzionai già in passato su Scienza Facile, quando proprio Emanuel Tschopp lo illustrò ai Paleodays del 2015 a Palermo, promettendo di parlarne in seguito; purtroppo vari impegni ne hanno portato la disamina su questoblog alle proverbiali calende greche, ma ora possiamo finalmente vedere in cosa consiste questo studio che per mole è secondo solo agli animali che esamina.

 Tschopp e colleghi sono andati a indagare uno dei principali gruppi all’interno dei sauropodi, il clade Diplodocidae. Attualmente si riconoscono tra le 12 e le 15 specie di diplodocidi, tra le quali vi sono dinosauri famosi e iconici quali Apatosaurus e l’eponimo Diplodocus; la loro massima diversità fu raggiunta nel Giurassico Superiore quando erano presenti in Nordamerica, Tanzania, Zimbabwe, Portogallo, Spagna e forse anche in Inghilterra e Georgia, ma a differenza di altri gruppi di sauropodi i diplodocidi entrarono apparentemente in declino nel Cretaceo Inferiore, con Leinkupal dal Sudamerica come unico membro del gruppo databile al Cretaceo.

Lo scopo dello studio è di stabilire le relazioni filogenetiche, fino ad ora non del tutto chiarite, tra le varie specie di diplodocidi. Per farlo Tschopp e colleghi hanno esaminato e confrontato i caratteri degli esemplari conservati nei musei, prendendone in esame 81 che sono diventati ciò che in cladistica si definisce operational taxonomic unit o OTU: 49 di esse appartengono a Diplodocidae e comprendono tutti gli olotipi (cioè gli esemplari sui quali si basa la descrizione formale di una specie) sinora ascritti al gruppo oltre a vari esemplari ragionevolmente completi e articolati che hanno fornito ulteriori dati nel caso in cui gli olotipi fossero frammentari o mal conservati, specialmente a livello del cranio; in aggiunta ad essi sono stati esaminati dei taxa non inclusi nei diplodocidi come termini di confronto.

Per ciascuno di questi esemplari si è osservato quali fossero presenti tra i 477 caratteri delle varie parti dello scheletro presi in considerazione; tali caratteri sono stati misurati direttamente sui fossili stessi laddove possibile, altrimenti sono stati ricavati dalle descrizioni pubblicate in letteratura oppure da fotografie ad alta definizione. Partendo dai dati ottenuti dall’esame degli esemplari è stata quindi eseguita l’analisi filogenetica elaborando tali dati grazie ad un software apposito chiamato TNT. Non scendiamo nel dettaglio per spiegare tutto il processo perché non basterebbero venti pagine, ma basta sapere che, oltre ai dati ricavati dalla misurazione dei caratteri, si è tenuto conto di numerose variabili che hanno influito sulla morfologia degli elementi scheletrici esaminati, come ad esempio lo stadio di crescita dell’esemplare, la deformazione dei fossili o la presenza di tratti morfologici peculiari di un singolo esemplare.

L’elaborazione dei dati ha portato alla creazione di un grafico, detto cladogramma, che rappresenta le relazioni filogenetiche tra i vari taxa esaminati stabilite in base ai caratteri che essi hanno in comune fra loro. Il lavoro di Tschopp et al. ha prodotto quattro cladogrammi diversi a seconda del criterio di analisi dei caratteri; in linea generale, tuttavia, tutti e quattro non si discostano troppo dai modelli ipotizzati in lavori precedenti: ne risulta un clade chiamato Diplodocoidea comprendente i gruppi Rebbachisauridae e Flagellicaudata; questi ultimi sono distinti in Dicraeosauridae e Diplodocidae, i quali a loro volta si dividono in Apatosaurinae e Diplodocinae. A seconda del criterio adottato alcune specie si collocano in una posizione piuttosto che in un’altra, ma lo schema generale rimane sostanzialmente lo stesso.

Il risultato sul quale ci vogliamo soffermare, che è anche quello che ha generato il maggior clamore mediatico tra i non addetti ai lavori, si trova all’interno degli Apatosaurinae, dove i dati evidenziano due raggruppamenti di specie: da una parte abbiamo Apatosaurus ajax e Apatosaurus louisae che risultano più strettamente imparentati tra loro rispetto agli altri tre taxa, ossia Apatosaurus excelsus, Elosaurus parvus e Eobrontosaurus yahnahpin. Gli autori ritengono che questi tre taxa siano abbastanza distinti dalle altre due specie di Apatosaurus da non appartenere al medesimo genere, ma allo stesso tempo non sono abbastanza differenziati fra loro da giustificare tre nomi generici; hanno così deciso di riunirli sotto il medesimo nome generico, e siccome la priorità va a quello istituito per primo hanno “resuscitato” quello dato originariamente ad Apatosaurus excelsus: Brontosaurus.

Quanto proposto da questa ricerca aggiunge un altro tassello a una storia tassonomica già piuttosto intricata qual è quella del brontosauro. Tutto iniziò quando nel 1877 Othniel Charles Marsh descrisse i resti di un enorme animale portato alla luce da rocce della Morrison Formation a Como Bluff nel Wyoming, ai quali diede il nome Apatosaurus ajax. In seguito, nel 1879, Marsh descrisse un secondo scheletro di sauropode a cui assegnò il nome Brontosaurus excelsus. Nel 1903 Elmer Riggs riesaminò i due esemplari in questione e pubblicò una revisione dei rispettivi taxa in cui affermò che le differenze tra Apatosaurus e Brontosaurus erano insufficienti per distinguere i due generi; ne conseguì che, in base alle norme di nomenclatura, il nome corretto da attribuire alla specie excelsus era quello del genere descritto per primo, ossia Apatosaurus. Alle due specie già note A. ajax e A. louisae si aggiunse così Apatosaurus excelsus, che manteneva la sua validità come specie ma perdeva la sua “indipendenza”, per così dire, a livello di genere.

Da quel momento, per la letteratura scientifica il nome Brontosaurus perse di validità, e per oltre un secolo la sua specie fu considerata un’altra specie di apatosauro. Per la cultura popolare, però, il nome rimase valido eccome, e generazioni di paleontologi, esperti o semplici appassionati dovettero sobbarcarsi l’onere di correggere coloro che chiamavano “brontosauro” qualsivoglia generico dinosauro sauropode. A peggiorare le cose ci fu il fatto che lo scheletro dell’olotipo di brontosauro era privo di cranio, così quando fu esposto all’American Museum of Natural History di New York gli venne piazzato un cranio scolpito sulla base di quello di Camarasaurus, un altro sauropode più piccolo e solo lontanamente imparentato; questo cranio aveva una forma più tozza e alta rispetto a quello lungo e stretto che avevano le altre specie di Apatosaurus, il che non fece che aumentare ulteriormente la confusione tra i non addetti ai lavori; solo nel 1978 giunse la conferma che anche il cranio di A. excelsus era allungato, e a quel punto le ricostruzioni furono aggiornate in accordo.

Nel 2015 il cerchio si chiude: Tschopp e colleghi sostengono che alla fine fine A. excelsus è effettivamente abbastanza diverso dalle altre specie di Apatosaurus, e così torna ad essere Brontosaurus; dallo studio emerge anche che il brontosauro è leggermente più antico e compare un po’ più in basso nella stratigrafia della Formazione Morrison rispetto all’apatosauro, rinforzando ulteriormente l’interpretazione di Tschopp et al. – e prima ancora quella originaria di Marsh – dei due generi distinti fra loro. C’è qualcosa di profondamente ironico nel fatto che per oltre un secolo i paleontologi hanno corretto chi usava il nome “brontosauro” solo per scoprire che alla fine non aveva poi così torto, e anche nel fatto che ciò in retrospettiva rende corretto l’uso di quel nome tutte le volte che un autore lo inseriva in un romanzo o in un film, oppure un produttore di giocattoli lo stampava sulla pancia di un modellino di dinosauro dal collo lungo infischiandosene di ogni velleità scientifica.

C’è anche una morale che possiamo trarre da questa vicenda, e che mi ha ispirato a scrivere queste poche righe su una piccola parte di un lavoro molto più ampio ed esaustivo: a prescindere dal nome generico, la specie excelsus è sempre stata valida, e nessuno lo ha mai messo in dubbio; il vero dibattito nasce dal genere al quale ascriverla, e a quel punto si passa dalla certezza dei fatti all’interpretazione dei dati da parte dei vari autori. La proposta di Tschopp et al. di rendere di nuovo valido il nome Brontosaurus è la loro interpretazione dei dati ottenuti studiando i fossili, e infatti non tutti i paleontologi sono concordi e preferiscono mantenere valido solo il nome Apatosaurus. Alla fine tale dibattito è solo una questione di quale etichetta appiccicare a una specie, ma la cosa davvero importante è che il loro studio fornisce dati sui quali chiunque può lavorare e produrre la propria versione dei fatti; la loro interpretazione è testabile ed eventualmente confutabile, e magari tra qualche anno nuove scoperte e nuovi studi la affosseranno e Brontosaurus tornerà nell’oblio dei nomi non più validi; i dati da loro forniti, però, danno a chi dissente da essa i mezzi per argomentare la propria opinione, e ciò rappresenta al meglio un’applicazione di ciò che dovrebbe essere il metodo scientifico.

 

Il secondo lavoro di cui andiamo a parlare è del gruppo di lavoro composto da Cristiano Dal Sasso, Gustavo Pierangelini, Federico Famiani, Andrea Cau e Umberto Nicosia; lo studio (Dal Sasso et al. 2016) è stato pubblicato su Cretaceous Research e, per riagganciarci a quanto detto in apertura, è sorprendente sia per la sua natura del fossile descritto sia per il luogo da cui è tornato alla luce.

Tutto inizia nel 2008, quando dei lavori di estrazione in località Rocca di Cave, in provincia di Roma, portarono alla luce rocce provenienti da un affioramento di calcari del Cretaceo; queste rocce contenevano dei fossili che nel 2012 sono stati portati all’attenzione di esperti che li hanno identificati come resti di un sauropode.

A sorprendere è in particolare la roccia che conteneva i resti: nell’area di Rocca di Cave, che si trova nella parte meridionale dei Monti Prenestini, affiorano infatti calcari marini databili all’Aptiano-Senoniano, quindi attorno a 100 milioni di anni fa a metà del periodo Cretaceo; questi calcari appartengono alla cosiddetta Piattaforma Carbonatica Appenninica o Piattaforma Laziale-Abruzzese-Campana, che si è depositata a partire dal Cretaceo fino al Miocene.

Molti degli affioramenti di età cretacea della suddetta piattaforma hanno un’estensione limitata e sono spesso fortemente disturbati dalla tettonica, e la sezione da cui provengono i fossili, posta dove anticamente si trovava il margine occidentale della piattaforma, non fa eccezione; si tratta di una successione sedimentaria spessa poco più di due metri data da calcari più grossolani cui si intercalano livelli più fini a ooliti, e dove si osservano accumuli localizzati di rudiste e milioline oltre a tracce di esposizione subaerea; questa successione rappresenterebbe una facies di laguna con depositi a grana fine ma ricchi in bioclasti ubicati in un contesto di piattaforma interna. Il calcare che ingloba i fossili di dinosauro si caratterizza per l’abbondanza di frammenti di bivalvi, gasteropodi, echinoidi e più rari brachiopodi e coralli, organizzati in livelli bioclastici con orientazione preferenziale dei frammenti; è stato attribuito alla cosiddetta unità dei “Calcari a ostracodi e gasteropodi”, datata tra la fine dell’Aptiano e l’inizio dell’Albiano (circa 113 milioni di anni fa). Abbiamo quindi i resti di un sauropode finiti in un’antica laguna ai margini di una piattaforma carbonatica parzialmente emersa, abbastanza estesa da permettere se non la sussistenza almeno il transito di animali di terraferma quali i dinosauri.

Il materiale rinvenuto consiste di tre elementi disarticolati tuttora conservati presso il Museo di Storia Naturale di Milano: si tratta di una vertebra e di due frammenti ossei, tutti immersi nella stessa matrice e quindi ragionevolmente appartenenti al medesimo animale. La vertebra è isolata e non mostra tracce di connessione con altre vertebre andate perdute; gli altri elementi si sono frammentati prima della diagenesi e indicano di aver subito trasporto su un substrato sciolto prima del seppellimento definitivo e della cementazione della matrice sedimentaria.

E’ soprattutto la vertebra a permettere l’identificazione dell’animale a cui è appartenuta: dall’esame dei suoi caratteri gli autori attribuiscono la vertebra a un sauropode del gruppo dei titanosauriformi, un gruppo di sauropodi di grande successo che annovera più di 90 specie distribuite su tutto il globo e vissute tra il Giurassico Medio e il Cretaceo Superiore. Ciò lo pone quindi sull’altro ramo dei sauropodi rispetto ai diplodocidi che abbiamo visto prima, più vicino a Brachiosaurus, Camarasaurus e soprattutto forme più derivate comeSaltasaurus. Alcuni caratteri in particolare, tra cui i processi trasversi e le superfici di articolazione con gli archi emali, collocano la vertebra in posizione distale tra le caudali anteriori, probabilmente tra il quinto e l’ottavo elemento della serie. Dal confronto con elementi omologhi delle stesse dimensioni facenti parte di scheletri più completi di titanosauri è stato anche possibile stimare per l’animale una lunghezza di circa 6 metri.

Gli altri due elementi ossei sono troppo frammentari e danneggiati per poterne stabilire la forma esatta, ma quello più sottile è probabilmente la porzione laminare di un elemento del cinto, forse parte della scapola, oppure si colloca lungo la parte stretta e allungata dell’ischio o del pube. L’altro frammento, più grande, probabilmente appartiene all’estremità prossimale di un elemento del cinto pelvico.

Gli autori hanno eseguito un’analisi filogenetica, anche qui con il software TNT, esaminando i caratteri della vertebra di modo da trovare le affinità dell’esemplare con altri titanosauriformi e quindi la sua posizione all’interno del gruppo. Sono stati applicati vari criteri di analisi dei caratteri, e i vari risultati ottenuti concordano nell’associare il titanosauro italiano a Malawisaurus, Mongolosaurus e Rapetosaurus, riunendoli in un clade affine a Saltasauridae all’interno del gruppo di titanosauri chiamato Lithostrotia. Data la scarsità di resti, tuttavia, gli autori si sono astenuti dal voler assegnare un nome al dinosauro, limitandosi a definirlo un titanosauro indeterminato.

E’ stata condotta anche un’analisi di tipo paleobiogeografico volta a stimare l’area di provenienza del probabile antenato comune dei taxa del clade a cui appartiene il titanosauro italiano. Va detto che i modelli ottenuti non sono precisi al 100% per via delle molte incognite legate soprattutto alla differenza tra le epoche di vita e le zone geografiche in cui i taxa sono vissuti; ciò nondimeno si delineano due ipotesi principali che vedono il taxon italiano giungere dall’Africa per insediarsi in Italia oppure far parte di un più ampio interscambio di faune che si spostavano tra Asia e Africa attraverso l’Europa. In ogni caso, la presenza di un titanosauro di età aptiano-albiana che mostra legami con forme africane ed asiatiche è compatibile con l’incremento nella diversità e della diffusione dei titanosauriformi che si osserva nel corso del Cretaceo Inferiore tra Barremiano a Albiano.

Nel loro studio Cristiano Dal Sasso e i suoi coautori sottolineano altri importanti aspetti paleobiogeografici legati al dinosauro di Rocca delle Cave: innanzitutto è il primo sauropode italiano del quale si abbiano resti ossei; è inoltre il più antico titanosauro rinvenuto in Europa meridionale, e insieme a Normanniasaurus é uno di due soli taxa del Cretaceo Inferiore attribuibile con certezza ai titanosauri. In un quadro più ampio, esso rafforza l’ipotesi di un ponte di terra che a quell’epoca collegava Africa ed Europa permettendo lo spostamento delle faune terrestri. Sono stati proposti vari modelli per spiegare l’estensione e l’ubicazione di questi ponti di terra, e il titanosauro italiano offre sostegno al cosiddetto modello di Adria, secondo il quale le faune africane si sarebbero disperse in Europa durante le fasi di emersione di un sistema di piattaforme carbonatiche che si estendevano dall’odierna Tunisia al Friuli; il titanosauro di Rocca delle Cave è solo l’ultimo di una serie di ritrovamenti significativi che corroborano questo modello: anche il celebre Scipionyx proviene da rocce carbonatiche di piattaforma, così come i resti di vertebrati terrestri dell’area friulana (primo fra tutti l’ornitopode Tethyshadros) e le orme rinvenute in vari siti della Puglia; pur non essendo fossili di organismi, le bauxiti del centro e sud Italia spesso rappresentano evidenze di paleosuoli e quindi di esposizione in ambiente subaereo di queste piattaforme carbonatiche del Cretaceo.

Cosa c’è di tanto sorprendente nel lavoro di Dal Sasso e colleghi, mi si chiederà. La risposta sta nel fatto che i ritrovamenti di dinosauri su suolo italiano sono ormai talmente tanti e talmente distribuiti nello spazio e nel tempo da rendere chiaro che l’Italia mesozoica non era poi così povera di dinosauri come si pensava fino a poco più di vent’anni fa. Certo, difficilmente il nostro paese conserverà nel sottosuolo un tesoro di ossa paragonabile a luoghi come il Nordamerica o la Mongolia, ma a questo punto è ragionevole pensare che i dinosauri italiani ci siano eccome, siano più grandi di quel che si pensava (il titanosauro era lungo 6 metri, il “saltriosauro” lombardo parrebbe essere ancora più grande, e nemmeno quelli che hanno lasciato le impronte in Puglia dovevano essere bruscolini!) e aspettino solo di essere trovati. Come fare a trovarli? Come sempre quando si tratta di fossili è tutta una questione di trovare il posto giusto e avere una buona dose di fortuna!

 

Si ringrazia Giuseppe Marramà per avermi fornito il materiale per questo articolo


Bibliografia

  •  Tschopp et al. (2015), A specimen-level phylogenetic analysis and taxonomic revision of Diplodocidae (Dinosauria, Sauropoda). PeerJ 3:e857; DOI 10.7717/peerj.857
  • Sasso, C.D., Pierangelini, G., Famiani, F., Cau, A., Nicosia, U., First sauropod bones from Italy offer new insights on the radiation of Titanosauria between Africa and Europe, Cretaceous Research (2016), doi: 10.1016/j.cretres.2016.03.008.

Bolca e i suoi pesci fossili

Daniele Tona – 3 agosto 2016

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 L’ispirazione per questo articolo risale a qualche mese fa, quando il mio amico Giuseppe Marramà ha discusso all’Università di Torino la sua tesi di dottorato sullo studio dei pesci fossili di Bolca, uno dei siti paleontologici più famosi e importanti al mondo per la quantità e qualità dei resti rinvenuti. Il lavoro che ha presentato è stato un po’ diverso da quelli che in precedenza hanno indagato questo sito, e sebbene la località sia nota da secoli i risultati della ricerca sono stati per certi versi sorprendenti. Ciò mi ha dato lo spunto per parlare un po’ di Bolca e dei suoi spettacolari fossili, che io stesso ho avuto il piacere di vedere nell’ormai lontano 2009 con il professor Tintori e gli amici del corso di Paleontologia dei Vertebrati.

Come detto, il sito eocenico di Bolca è uno dei più noti ed importanti grazie all’abbondanza e alla qualità di conservazione dei fossili rinvenuti nei suoi strati. I resti più famosi e studiati di Bolca sono senza dubbio i pesci, che rappresentano una delle ittiofaune fossili meglio conosciute al mondo nonché la più diversificata tra quelle risalenti al Cenozoico; accanto ad essi i calcari hanno inoltre restituito anche una gran quantità di fossili di foraminiferi, molluschi, insetti, crostacei e anche di piante che hanno fornito ai paleontologi un quadro molto dettagliato di quell’ecosistema di 50 milioni di anni fa.

Alcuni esempi dei pesci fossili straordinariamente conservati provenienti da Bolca

Una conoscenza così approfondita del sito di Bolca deriva anche dai vari secoli di studi alle nostre spalle. L’esistenza di “pesci pietrificati” nei calcari di Bolca viene menzionata per la prima volta dal botanico Pietro Andrea Mattioli nella terza edizione della sua opera Dioscorides De Materia Medicinale del 1550, in cui esaminò esemplari appartenuti alla collezione di Diego Hurtado de Mendoza, ambasciatore dell’imperatore Carlo V presso la Repubblica di Venezia.

In seguito vari altri studiosi si sono interessati ai pesci di Bolca, così come molti nobili che li acquisivano per le loro collezioni; alcune di esse confluirono a metà del Settecento in quella del conte Giovanni Battista Gazola, che arrivò a contare più di un migliaio di esemplari. La collezione di Gazola fu studiata da Giovanni Serafino Volta (fratello del ben più noto Alessandro inventore della pila), che dopo aver pubblicato un breve catalogo della collezione di Vincenzo Bozza nel 1789 in cui assegnò gran parte dei pesci fossili a specie attuali di mare tropicale redasse un esaustivo inventario dell’ittiofauna di Bolca dal titolo Ittiolitologia Veronese del Museo Bozziano ora annesso a quello del conte Giovambattista Gazola e di altri gabinetti fossili Veronesi; pubblicato nel 1796, viene considerato il primo trattato di paleoittiologia e include la descrizione di più di 120 specie.

Nel 1797 l’armata di Napoleone che occupò Verona confiscò più di 600 pezzi della collezione di Gazola, che furono portati a Parigi dove furono presi in custodia dal Muséum National d’Histoire Naturelle; qui vennero esaminati dal naturalista svizzero Louis Agassiz, uno dei padri della zoologia comparativa, che pubblicò i risultati dei suoi studi nella monumentale opera Recherches sur les Poissons Fossiles tra il 1833 e il 1844.

Nei decenni a seguire le ricerche su questa straordinaria fauna sono proseguite ad opera di vari autori; negli anni più recenti sono state condotte da Jacques Blot del Museo di Parigi, Lorenzo Sorbini di quello di Verona e dai gruppi di lavoro di Alexander Bannikov, James Tyler, Roberto Zorzin e Giorgio Carnevale.

Volendo tratteggiare più nel dettaglio il contesto geologico, l’area fossilifera di Bolca è situata nella zona orientale dei Monti Lessini, circa 2 km a nordest del paese in provincia di Verona. I due siti principali sono la cosiddetta Pesciara e il Monte Postale; essi distano solo poche centinaia di metri l’uno dall’altro, ma sebbene siano entrambi formati da calcari micritici finemente laminati e ricchi di fossili, i dati sedimentologici, stratigrafici e paleontologici ci dicono che questi due siti hanno età e contesti deposizionali distinti; oltretutto le rocce vulcaniche e vulcanoclastiche che circondano i due corpi sedimentari rendono difficile stabilire i reciproci rapporti stratigrafici e quindi la ricostruzione dell’evoluzione della successione nello spazio e nel tempo.

La successione della Pesciara consiste di una serie di strati spessa una ventina di metri e data da calcari micritici a laminazione fine, contenenti resti ben preservati di pesci, piante e invertebrati, che si alternano ciclicamente a biocalcareniti e biocalciruditi, ossia rocce calcaree più grossolane i cui granuli sono principalmente frammenti di parti dure di organismi bentonici. Sulla base dei foraminiferi bentonici presenti la successione della Pesciara è stata attribuita, a seconda del criterio di zonazione biostratigrafica, alla Zona ad Alveolina dainelli o alla Biozona SBZ 11; esse corrispondono al Cuisiano Superiore, una sottodivisione dell’Ypresiano databile a poco meno di 50 milioni di anni fa, ossia all’inizio dell’Eocene. L’unità litostratigrafica di appartenenza sono i cosiddetti “Calcari Nummulitici”, un’unità informale che affiora nell’Italia nordorientale.

La successione del Monte Postale comprende la Formazione della Scaglia Rossa risalente al Cretaceo insieme ovviamente a calcari datati all’Ypresiano che si pensa possano arrivare fino all’appena più recente Luteziano, sebbene studi stratigrafici più precisi non siano ancora stati effettuati soprattutto per la parte più sommitale da cui provengono gli esemplari delle campagne di scavo più recenti. Dal punto di vista litologico si tratta anche qui di calcari micritici a granulometria e laminazione fini, anche se l’osservazione di tracce di biocostruzioni a coralli, le caratteristiche di preservazione dei fossili e la diversa composizione tassonomica denotano un ambiente abbastanza diverso da quello della Pesciara.

Nel corso degli ultimi quattro secoli sono stati recuperati più di 100.000 esemplari di pesci dalle rocce dell’area di Bolca, per i quali sono state erette più di 230 specie ripartite in almeno 190 generi. Eppure, fino ad oggi non erano mai stati intrapresi degli studi paleoambientali e paleoecologici di questi due siti che chiarissero in dettaglio la struttura delle comunità ittiche e gli aspetti tafonomici (cioè relativi ai processi che hanno portato dal pesce morto al fossile). Il gruppo di lavoro dell’Università di Torino ha deciso di farsi carico di questa impresa, pubblicando una serie di ricerche che hanno fatto luce sugli aspetti ecologici di questo Fossil-Lagerstätte. Qui ovviamente ne faremo solo un rapido excursus, perché si tratta di una mole di lavoro tanto voluminosa quanto esaustiva, ma è opportuno sottolineare la sua importanza per essersi focalizzati su aspetti fino ad ora trascurati da studi precedenti soffermatisi maggiormente sulla sistematica dei pesci fossili rinvenuti. Per i dettagli di questo studio il lavoro di riferimento è Marramà et al. (2016).

Allo scopo di espandere la conoscenza del contesto paleoecologico e paleoambientale di Bolca sono state svolte analisi quantitative sui pesci fossili recuperati nel corso di scavi sistematici condotti nella Pesciara e sul Monte Postale tra il 1999 e il 2011. E’ stata misurata la lunghezza standard dei 1158 ittioliti raccolti insieme a dati sulla loro abbondanza, e sono state esaminate le condizioni di preservazione per stabilire i processi tafonomici occorsi nei due siti; per far ciò sono stati presi in considerazione vari parametri:

  • Il grado di completezza degli scheletri, che va da esemplari del tutto articolati con ossa e scaglie in perfetta connessione anatomica a esemplari disgregati con un profilo del corpo indefinito ed elementi scheletrici disarticolati, sparpagliati o assenti.

  • L’orientazione nelle tre dimensioni, definita come la disposizione dell’esemplare rispetto alla superficie di strato, cioè se l’esemplare giace parallelo a quest’ultimo oppure è in qualche maniera ritorto e quindi mostra il lato dorsale o ventrale del corpo.

  • La tetania, cioè la contrazione post-mortem dei muscoli, che porta la carcassa del pesce a spalancare la bocca, a incurvare la colonna vertebrale e a dispiegare a ventaglio le pinne.

Da queste analisi risulta che i due siti conservano associazioni fossili diverse fra loro e hanno differenti contesti deposizionali.

Nella Pesciara i pesci rappresentano il 55% dei fossili raccolti; la restante percentuale è data da un 38% di resti vegetali (soprattutto Delesserites e Halochloris, più alcune angiosperme dicotiledoni), un 6% dato da invertebrati (crostacei, molluschi e insetti) e infine il rimanente 1% dai coproliti. Grazie all’elevata qualità di preservazione dei pesci della Pesciara è stata possibile l’identificazione degli esemplari fino al livello della specie, individuando almeno 40 specie ripartite in 27 famiglie e 9 ordini; il gruppo più abbondante è quello dei clupeidi, soprattutto grazie a Bolcaichthys che da solo costituisce il 60% degli esemplari, mentre il secondo gruppo più rappresentato sono i perciformi, in particolare apogonidi, menidi e sparidi, seguiti dagli olocentridi e da vari altri gruppi. Da questa composizione dell’ittiofauna è emersa una rete trofica in cui i taxa planktivori rappresentano la tipologia dominante; si osservano inoltre due classi di taglia particolarmente abbondanti: gli esemplari lunghi tra 20 e 30 mm, che riflettono l’abbondanza delle forme di piccola taglia come apogonidi e olocentridi, e quelli lunghi tra 50 e 70 mm, rappresentati principalmente dallo stadio adulto della sardina Bolcaichthyscatopygopterus, molto numerosa negli strati della Pesciara.

Sul Monte Postale le percentuali sono ben diverse: i pesci rappresentano circa un terzo degli esemplari mentre i fossili più comuni sono le piante, col 50% del totale dato da vari tipi di alghe e di piante terrestri; rispetto alla Pesciara sono inoltre assai più abbondanti i resti di invertebrati (15,6% del totale) e i coproliti (3,4%). La qualità di preservazione del sito è inferiore rispetto alla Pesciara, il che non permette di identificare facilmente gli esemplari a livello della specie e a volte anche del genere, e rende quindi difficile interpretare le relazioni tra i taxa dell’associazione; il numero di specie ittiche identificate sul Monte Postale è quindi un po’ più basso, con 34 taxa appartenenti a 25 famiglie e 8 ordini; il gruppo dominante è quello dei perciformi, che annovera forme di varie famiglie (scombridi, acropomatidi, menidi, labroidi e sparidi) e rappresenta il 60% dell’ittiofauna; un altro 30% è dato dai clupeidi, in particolare dall’aringa rotonda Trollichthys bolcensis che è la specie più comune; il terzo gruppo più abbondante sono gli elasmobranchi, in prevalenza squali i cui denti isolati rappresentano il 5%; seguono poi altri gruppi come anguilliformi, beloniformi, syngnathiformi e altri che complessivamente costituiscono il rimanente 7% dell’ittiofauna. La quasi totalità degli esemplari ha una lunghezza inferiore ai 180 mm, con i valori più frequenti compresi tra 10 e 30 mm per via dell’abbondanza di forma di piccole dimensioni, in particolare perciformi epibentonici e criptobentonici, e clupeidi.

La difficoltà nel definire le relazioni reciproche tra i due siti ha sempre reso problematica la ricostruzione paleoambientale dell’area durante l’epoca di deposizione dei calcari. Il modello tradizionale ipotizza un ambiente tropicale in cui i carbonati della Pesciara si sono depositati, a seconda degli autori, in una posizione che varia da una depressione costiera fortemente influenzata dal mare aperto a un bacino intrapiattaforma poco profondo più al largo; alcuni autori hanno proposto un sistema unico in cui Pesciara e Monte Postale sono sostanzialmente coeve e fanno parte di una laguna tropicale costiera ai cui margini sorgono un arcipelago vulcanico e le biocostruzioni carbonatiche delle quali si ha traccia al Monte Postale;

L’analisi tafonomica dei due siti conferma sostanzialmente i modelli già elaborati per la Pesciara, secondo i quali i suoi sedimenti si sarebbero depositati in un bacino intrapiattaforma in cui la preservazione in grande dettaglio è stata possibile grazie alle condizioni anossiche al fondo e allo sviluppo di biofilm. Per il Monte Postale, invece, l’abbondanza di piante sia marine che terrestri oltre che di invertebrati di vario tipo (tra cui spiccano senz’altro i coralli) fornirebbe indicazioni di un ambiente di deposizione prossimo alla costa in cui crescevano mangrovie, piante acquatiche e biocostruzioni coralline. Il fatto che gli scheletri dei pesci mostrino estesa disgregazione e dispersione degli elementi indica un alto livello di disturbo del fondale, che suggerisce che almeno periodicamente insorgessero condizioni aerobiche che consentivano l’insediamento di organismi che con la loro attività disturbavano il sedimento.

Abbiamo menzionato alcune specie di pesci particolarmente significative per via della loro abbondanza all’interno degli strati. Ebbene, alcune di esse sono state identificate proprio nel corso dello studio condotto dal gruppo di lavoro di Torino su circa 300 esemplari conservati in vari musei e istituzioni, e di recente sono state descritte.

I pesci recentemente descritti dai paleontologi di Torino: Bolcaichthys, Trollichthys ed Eoengraulis

Da questi studi è emerso che il 95% del materiale esaminato consiste di esemplari in vari stadi dello sviluppo di un unico taxon della famiglia Clupeidae. Il pesce in questione fu denominato Clupea catopygoptera da Agassiz nel 1835 che però non ne fornì una descrizione formale; questa fu poi redatta da Woodward nel 1901, assegnandolo al genere Clupea in cui all’epoca venivano inseriti praticamente tutti i clupeidi fossili e viventi; il lavoro di Grande del 1985 fornì evidenze sull’errata attribuzione di questa specie a Clupea, e sottolineò la necessità di revisionare il materiale relativo ai clupeoidi di Bolca. Trent’anni dopo la tanto richiesta revisione è arrivata, e ha stabilito l’appartenenza del materiale di Bolca a un nuovo genere della famiglia Clupeidae; il nuovo nome scelto per questo taxon è Bolcaichthys catopygopterus, dal significato tanto semplice quanto esplicativo di “pesce di Bolca”.

La descrizione dell’anatomia di Bolcaichthys, riportata in Marramà & Carnevale (2015b), è forse un po’ troppo tecnica per potervici soffermare in questa trattazione molto generale, ma per avere un’idea possiamo dire che era una sorta di sardina preistorica. Un aspetto importante di questo animale che vale però la pena di sottolineare è che si tratta non solo del clupeoide, ma anche del pesce più comune in assoluto della fauna di Bolca, e che grazie alla grande abbondanza di fossili si conosce in dettaglio la sua anatomia nelle varie fasi della crescita (larvale, giovanile e adulto). Parimenti importanti sono le informazioni che ci dà sul paleoambiente di Bolca, poiché questo pesce come altri clupeoidi doveva essere una forma tipicamente pelagica che nelle prime fasi della crescita era stanziata più vicino alla costa, e la presenza di grandi banchi è tanto indice del ruolo cardine che doveva avere nell’ecosistema quanto conferma dell’ipotesi secondo cui i calcari di Bolca si sono depositati in un bacino prossimo alla costa che però risentiva di una significativa influenza da parte degli ambienti di mare aperto.

I calcari di Bolca hanno restituito anche i fossili di un membro di un altro gruppo all’interno della famiglia Clupeidae: la sottofamiglia dei Dussumieriinae, tipica di acque marine costiere di clima tropicale e subtropicale. Anche in questo caso Agassiz assegnò un nome ai resti, che chiamò Clupea leptostea, cui seguì la descrizione formale da parte di Woodward; in seguito Grande ne evidenziò l’affinità coi Dussumieriinae, e dopo essere stato assegnato a vari generi da altrettanti autori il taxon ha finalmente ricevuto una chiara identità nel lavoro di Marramà & Carnevale (2015a), diventando Trollichthys bolcensis in riferimento sia all’artista americano Ray Troll – rinomato per le sue ricostruzioni di pesci fossili – sia alla località di Bolca.

Questo pesce presenta diversi tratti in comune con il genere attuale Spratelloides che vive nelle acque dell’Indo-pacifico; la combinazione dei caratteri anatomici di Trollichthys insieme alla loro preservazione non ottimale non permette tuttavia di assegnarlo con certezza a nessuna delle odierne linee filetiche all’interno dei Dussumieriinae, e quindi al momento non c’è modo di stabilire con quali taxa del gruppo sia più strettamente imparentato.

Un altro taxon significativo proveniente dalla Pesciara è stato descritto nel lavoro di Marramà & Carnevale del 2016. Appartiene alla famiglia degli Engraulidae, un peculiare gruppo di clupeoidi caratterizzato da una serie di caratteri derivati del muso, delle ossa infraorbitali e del sospensorio; e se questa descrizione non renda bene l’idea dell’identità del gruppo, basta dire che la nuova specie non è altro che un parente preistorico dei pesci volgarmente noti come acciughe. Eoengraulis fasoloi, questo il nome del nuovo taxon, è basato su un singolo scheletro ben conservato e articolato dal quale è stato possibile stabilire la combinazione esclusiva di caratteri che lo distingue; il nome del genere significa “acciuga dell’alba”, mentre quello della specie è un tributo al biologo Aldo Fasolo.

Dove si colloca Eoengraulis all’interno della famiglia delle acciughe? Gli Engraulidae vengono divisi in due sottofamiglie, la più primitiva Coiliinae e la più derivata Engraulinae; sulla base dei suoi caratteri Eoengraulis risulta essere il sister-taxon di tutti i taxa della sottofamiglia Engraulinae; ciò significa che dallo stesso antenato comune si è evoluto da una parte Eoengraulis e dall’altra il ramo al quale appartengono le acciughe più derivate.

Eoengraulis ha quindi una grande importanza nel delineare la storia degli Engraulidae. Prima che venisse scoperto le testimonianze fossili di questa famiglia erano molto scarse, in modo persino anomalo rispetto a quanto sono abbondanti oggigiorno, e provenivano solo da sedimenti del Neogene (il secondo periodo dell’era Cenozoica, comprensivo di Miocene e Pliocene), con un divario di almeno 25 milioni di anni tra Eoengraulis e le altre acciughe fossili. La sua età così antica indica che la radiazione del gruppo è avvenuta molto prima di quanto i fossili in nostro possesso facessero pensare in precedenza, avviandosi già durante l’Eocene.

Volendo chiudere questo post con una riflessione, possiamo senz’altro affermare che Bolca ha ancora molte cose da dire, e che un semplice cambio di approccio allo studio di materiale noto da decenni ha fornito una mole di informazioni inaspettata (invero talmente grande che in questo articolo già bello corposo ne ho menzionata solo una parte) e di grande interesse, oltre che la prospettiva di future scoperte.

Da un punto di vista più personale non posso che fare le mie più sentite congratulazioni all’amico Giuseppe (o meglio, al Dottor Marramà!) per il lavoro svolto. Come ho già detto in molte occasioni, se la paleontologia italiana è una scienza così attiva e vitale è proprio grazie all’impegno della nuova generazione di paleontologi che, a dispetto delle difficoltà in cui versa la ricerca nel nostro paese, continua imperterrita a svelare giorno dopo giorno i segreti del passato.

Un ringraziamento a Giuseppe Marramà per aver revisionato questo articolo e per avermi fornito le foto degli esemplari

Bibliografia

  • Agassiz L. (1833-1844). Recherches sur les Poissons fossiles. Petitpierre, Neuchâtel, 1420 pp.

  • Agassiz L. (1835). Revue critique des Poissons fossiles figurés dans l’Ittiolitologia Veronese. 44 pp. Petitpierre et Prince, Neuchâtel.

  • Grande L. (1985). Recent and fossil clupeomorph fishes with materials for revision of the subgroups of clupeoids. Bulletin of the American Museum of Natural History, 181: 231–372.

  • Marramà, G., Bannikov, A.F., Tyler, J.C., Zorzin, R. & Carnevale, G. (2016).Controlled excavations in the Pesciara and Monte Postale sites provide new insights about the paleoecology and taphonomy of the fish assemblages of the Eocene Bolca Konservat-Lagerstätte, Italy. Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, 454: 228-245.

  • Marramà, G. & Carnevale, G. (2015a). Eocene round herring from Monte Bolca, Italy. Acta Palaeontologica Polonica 60 (3): 701–710.

  • Marramà G. & Carnevale G. (2015b): The Eocene sardine †Bolcaichthys catopygopterus (Woodward, 1901) from Monte Bolca, Italy: osteology, taxonomy and paleobiology. Journal of Vertebrate Paleontology. Published online, DOI: 10.1080/02724634.2015.1014490

  • Marramà G. & Carnevale G. (2016). An Eocene anchovy from Monte Bolca, Italy: The earliest known record for the family Engraulidae. Geological Magazine, 153 (1): 84–94.

  • Volta G. S. (1789). Degl’impietrimenti del territorio veronese ed in particolare dei pesci fossili del celebre monte Bolca per servire di continuazione all’argomento delle rivoluzioni terracquee. 24 pp., Verona.

  • Volta G. S. (1796). Ittiolitologia Veronese del Museo Bozziano ora annesso a quello del Conte Giovambattista Gazola e di altri gabinetti di fossili veronesi. 172 pp. Stamperia Giuliari, Verona.

  • Woodward A. S. (1901). Catalogue of Fossil Fishes in the British Museum (Natural History), 4: containing the Actinopterygian Teleostomi of the Suborders Isospondyli (in part), Ostariophysi, Apodes, Percesoces, Hemibranchii, Acanthopterygii and Anacanthini. Taylor and Francis, London, 636 pp.

Paleodays 2016 – Congresso della Società Paleontologica Italiana a Faenza

Daniele Tona – 22 giugno 2016

Leggi solamente sul sito originale www.scienzafacile.it

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Com’è ormai un appuntamento fisso, anche quest’anno Scienza facile era presente alle Giornate di Paleontologia, organizzate ogni anno dalla Società Paleontologica Italiana per dar modo ai suoi soci di riunirsi e presentare al resto della comunità paleontologica le loro ricerche.

La XVI edizione del congresso, tenutasi dal 25 al 27 maggio 2016, è stata organizzata dall’Università degli Studi di Firenze in collaborazione con il Museo Civico di Scienze Naturali “Malmerendi” di Faenza, sede del congresso. Questa struttura è nata nel 1980 a seguito dell’acquisizione della collezione ornitologica e entomologica di Domenico Malmerendi a cui è intitolata, ed conserva sia la suddetta collezione sia una vasta raccolta di fossili risalenti all’ultimo milione di anni di storia del territorio faentino; è nelle sue sale che si sono tenute le sessioni di comunicazioni orali così come l’esposizione dei poster presentati dai partecipanti al congresso.

 

E’ ormai una tradizione nella tradizione che il congresso vero e proprio sia anticipato dalla tavola rotonda di Palaeontologist in Progress, organizzata e dedicata ai giovani ricercatori per esprimere le loro idee e proposte per il futuro della disciplina.

Quest’anno il dibattito è stato un po’ più breve rispetto agli anni passati, ed ha gravitato soprattutto su una problematica significativa, vale a dire il riconoscimento della figura del paleontologo e più in generale del professionista nell’ambito dei Beni Culturali, e di conseguenza la necessità di porre dei requisiti in termini di titolo di studio per garantire l’accesso ai concorsi pubblici (e quindi ai posti di lavoro) in primo luogo a chi li soddisfa ed ha perciò le competenze adatte a svolgere quel lavoro.

Il motivo per cui quest’anno la tavola rotonda ha avuto una durata minore e meno argomenti è che parte della giornata è stata dedicata a un’escursione sul terreno. Meta dell’uscita è stata la Grotta della Tanaccia in località Brisighella, visitata grazie alla guida e all’assistenza del Gruppo Speleologico Faentino. La Tanaccia è una grotta particolare poiché si è sviluppata non attraverso i calcari come accade nella maggior parte dei casi, bensì attraverso i depositi di gesso che formano i rilievi della zona di Faenza. Durante l’escursione è possibile osservare l’azione dell’acqua sugli strati di solfato di calcio e le cavità e le strutture che l’azione combinata di dissoluzione e deposizione hanno creato nel corso del tempo; attenzione, però, perché chi fosse interessato è bene che sappia che non è una tranquilla camminata lungo grotte ampie e ben illuminate, ma un’escursione attraverso cunicoli e passaggi anche piuttosto stretti, che richiede l’uso di caschi, torce e un adeguato equipaggiamento.

 

Nonostante gli acciacchi e i crampi dovuti all’avventurosa esplorazione della grotta (o almeno, questa era la situazione di chi scrive), mercoledì 25 maggio i “PaiPeristi”, come noi si è soliti chiamarsi, si sono riuniti al resto dei congressisti per la prima giornata di comunicazioni presso il museo. Come sempre, per questioni di spazio posso solo limitarmi a una rapida carrellata dei molti lavori presentati, ma spero che ciò basti a rendere l’idea della varietà di ambiti di cui si occupa la comunità paleontologica italiana.

Il congresso si è aperto con i saluti del presidente e delle autorità locali, dopo di che Edoardo Martinetto ha inaugurato i lavori con una relazione a invito sui resti di piante della cosiddetta Vena del Gesso. Questa unità, e più in generale il Miocene Superiore durante il quale essa si è depositata, è stata oggetto di numerose comunicazioni riguardanti l’erpetofauna, l’ittiofauna e più in generale il contesto paleoambientale dell’epoca riferito sia all’area mediterranea sia ad altre parti del mondo (come la regione di Al Gharbia negli Emirati Arabi, la Formazione Pisco del Perù). C’è stato comunque modo di spaziare su molti altri argomenti e categorie tassonomiche, con lavori sui coccodrilli americani e la loro origine, l’endocranio dei placodermi, felidi e orsi delle caverne, i brachiopodi e le loro diverse strategie di vita, molluschi olocenici e triassici, i coralli e la loro sistematica, foraminiferi del Pliocene, la famosa fauna eocenica di Bolca, palinostratigrafia del Mesozoico della Sicilia e altro ancora. Non solo studi di anatomia pura, quindi, ma anche di paleoecologia e stratigrafia, e soprattutto un uso sempre più diffuso di tecniche di indagine quali la TAC o le nanotecnologie, a dimostrare che anche se i paleontologi studiano le vestigia del passato non significa che il modo con cui le studiano debba restare ancorato al passato!

 

La seconda giornata di congresso è quella tradizionalmente dedicata all’escursione sul terreno, tenutasi quest’anno giovedì 26 maggio. Le tre tappe dell’escursione di quest’anno hanno toccato tre parti della successione stratigrafica caratteristica dell’Appennino romagnolo depostasi tra la fine del Miocene e l’inizio del Pliocene, cioè tra poco meno di 8 e 5 milioni di anni fa.

Dal punto di vista litostratigrafico la successione è composta da quattro unità principali: la più antica è la Formazione Marnoso-arenacea, formata da torbiditi silicoclastiche di mare profondo che, a cavallo del limite Tortoniano-Messiniano (circa 7,2 milioni di anni fa) diventano peliti finemente laminate e ricche di sostanza organica denominate “peliti eusiniche”.

Sopra alla Formazione Marnoso-arenacea si trova la Formazione Gessoso-solfifera, che nella Romagna occidentale prende il nome di Vena del Gesso; essa è data da depositi evaporitici che rappresentano l’importante evento chiamato “crisi di salinità messiniana”, avvenuto quando il movimento delle placche portò alla temporanea chiusura dello stretto di Gibilterra e quindi all’interruzione del collegamento tra Mar Mediterraneo e Oceano Atlantico; storicamente si pensava che in tale periodo di isolamento il Mediterraneo si fosse lentamente prosciugato fino al suo totale disseccamento per evaporazione delle sue acque, e gli spessi depositi evaporitici di salgemma, gesso e altri sali sarebbero il risultato di tale prosciugamento. Un modello più recente ipotizza invece che il Mediterraneo non fosse del tutto sigillato, ma che comunicasse limitatamente con altre masse d’acqua come il Mar Rosso e in minima parte anche con l’Atlantico; il livello del mare era quindi molto più basso rispetto a oggi perché l’acqua persa per evaporazione era maggiore dell’acqua ricevuta dall’esterno, ma gli influssi periodici che giungevano da est e in parte anche da uno stretto di Gibilterra non del tutto occluso permettevano al Mediterraneo di non prosciugarsi del tutto. Secondo questo modello il Mediterraneo era quindi una sorta di grande salina, dove ciclicamente il livello del mare si abbassava per evaporazione depositando le evaporiti, per poi innalzarsi nuovamente in un secondo momento con l’apporto da altre masse d’acqua; il risultato è lo sviluppo di una serie di cicli evaporitici, dei quali ne sono stati contati ben 16 nella Vena del Gesso corrispondenti a un intervallo di tempo che va da 5,96 a 5,61 milioni di anni fa; ogni ciclo è dato da vari strati di cristalli di gesso grandi e ben definiti alla base che verso l’alto passano a microcristalli man mano che la concentrazione di ioni disciolti nell’acqua diminuiva; questi ultimi lasciano il posto a sottili livelli pelitici e talvolta fossiliferi depositati durante la fase di emersione, che a loro volta venivano ricoperti da un nuovo strato evaporitico una volta che il livello del mare risaliva.

Alla Formazione Gessoso-solfifera segue la Formazione a Colombacci, data da litologie di ambienti continentali, deltizi e lagunari sviluppatisi durante la fase finale del Messiniano ai margini di un Mediterraneo che iniziava a riempirsi col concludersi della “crisi di salinità”; il nome deriva dal colore grigiastro dei calcari lacustri osservati in alcune successioni di bacino marginale della Roamgna orientale. Infine, col passaggio al Pliocene 5,33 milioni di anni fa, inizia la deposizione della Formazione ad Argille Azzurre, rappresentata da peliti di mare profondo che evidenziano il ritorno a condizioni francamente marine una volta che il collegamento con l’Atlantico si è del tutto ripristinato; come si vedrà nel terzo stop dell’escursione, questa unità pelagica localmente passa a conglomerati di riempimento di paleocanale, a torbiditi arenacee o a carbonati di piattaforma.

 

Il primo stop è stato a Cava Monticino presso la cittadina di Brisighella, in provincia di Ravenna. Il sito era originariamente una cava in cui veniva estratto il gesso, ma nel 1985 Antonio Benericetti trovò dei resti fossili nel riempimento argilloso di alcune fessure nei depositi di gesso, il che portò all’interruzione dell’attività di estrazione del gesso per far spazio al recupero dei fossili nel corso degli anni successivi e quindi, nel 2006, all’istituzione di un parco-museo geologico per preservare questo importante sito paleontologico.

L’affioramento di Cava Monticino espone il passaggio dalle unità evaporitiche messiniane deformate da un evento tettonico avvenuto 5,6 milioni di anni fa alle Argille Azzurre plioceniche; osservando da una certa distanza (e il sentiero lo permette, poiché conduce a un punto panoramico che domina l’intero fronte di cava) si possono vedere bene i livelli evaporitici con un’inclinazione di circa 60° sovrastati dalle argille la cui giacitura è molto meno inclinata e si attesta sui 20°. Questa differenza di giacitura, unita al profilo irregolare del limite tra le due unità, è definita discordanza angolare.

In mezzo ai due banchi di strati si trova il motivo principale dell’importanza di Cava Monticino dal punto di vista paleontologico. Prima della deposizione delle Argille Azzurre, infatti, la Vena del Gesso già deformata dalla tettonica andò incontro a emersione alla fine del Messiniano; poiché il solfato di calcio, ossia il gesso, è molto solubile in acqua la sua esposizione lo ha reso molto suscettibile a fenomeni carsici (gli stessi che hanno formato la Grotta della Tanaccia), creando depressioni, fessure e cavità nelle quali è andato poi a depositarsi il sedimento continentale della Formazione a Colombacci. E’ in questo sedimento che sono stati trovati i resti fossili della fauna a vertebrati che abitava la zona di Brisighella prima che il mare la riconquistasse nel Pliocene depositando le Argille Azzurre; si tratta di una fauna molto variegata, che comprende sia macro che microvertebrati appartenenti a tutti i gruppi principali; sono state identificati ben 58 taxa diversi, di cui 39 solo di mammiferi di cui 5 rinvenuti per la prima volta a Cava Monticino: lo ienide Plioviverrops faventinus, il canide Eucyon monticinensis, il bovide Samotragus occidentalis e i muridi Stephanomys debruijni e Centralomys benericettii.

 

La seconda tappa dell’escursione ha condotto i congressisti al Rifugio Ca’ Carnè, sempre dalle parti di Brisighella. Nonostante si sia stati accolti dal profumo di carne alla griglia e l’appetito cominciasse a farsi sentire, prima di mettersi a tavola c’è stato il tempo di visitare un altro affioramento, assai meno imponente di Cava Monticino ma non meno interessante.

L’affioramento in questione consiste di alcuni blocchi calcarei che emergono dal versante della collina poco distante dal rifugio; questi blocchi appartengono alla Formazione Marnoso-arenacea, più precisamente alla porzione pelitica più sommitale depostasi nel Tortoniano Superiore, appena prima della crisi di salinità messiniana. Peculiarità di queste rocce è il fatto di essersi formate nei pressi di fuoriuscite di metano o di acido solfidrico dal fondale marino, dove si formarono comunità di organismi che vivevano in simbiosi con batteri chemiosintetici capaci di ricavare nutrimento dalle esalazioni gassose; i simbionti più comuni di questi batteri sono i bivalvi, in particolare si riconoscono una biofacies a Lucinidae di grandi dimensioni (anche 18 cm di larghezza per Lucina hoernea) – che peraltro conferisce il nome di “calcari a Lucina” a questi depositi) ed una biofacies dove invece la forma dominante è riconducibile ai Modiolinae attuali del genere Bathymodiolus; laddove forme come Phacoides perusinus sono più comuni, lucinidi e modiolini sono di solito mutualmente esclusivi, nel senso che se è presente il primo manca il secondo e viceversa; si pensa che i due gruppi di bivalvi si associassero a tipi differenti di batteri chemiosimbionti, colonizzando aree diverse a seconda della maggior concentrazione del gas più favorevole al loro sostentamento.

Terminata la visita ai calcari il gruppo ha fatto ritorno al rifugio, dove ha potuto finalmente rifocillarsi con il lauto pranzo a base di carne, formaggi, vini e altri validi motivi di carattere enogastronomico per partecipare ai congressi della Società, nel caso i fossili non siano un incentivo già abbastanza convincente.

 

La terza e ultima fermata dell’escursione si è tenuta un po’ più lontano rispetto a Faenza, più precisamente a Rio dei Cozzi vicino a Castrocaro. In questa zona affiora una particolare litofacies della Formazione delle Argille Azzurre datata al Piacenziano: si tratta di una biocalcarenite di ambiente poco profondo formata dalle parti dure carbonatiche di vari organismi marini, tra cui molluschi, brachiopodi, briozoi, foraminiferi e alghe calcaree.La diagenesi ha agito in modo differenziale a seconda del grado di cementazione e del tipo di parti dure soggette ai processi diagenetici, il che ha portato alla conservazione della maggior parte dei gusci di molluschi sotto forma di modello interno o di impronte, e più in generale ad una roccia porosa perforata da cavità; non è un caso che nel 1880 il geologo Giuseppe Scarabelli denominò questa facies “spungone”, dal termine dialettale spungò, proprio per evidenziare il suo aspetto spugnoso. Lo “spungone” affiorante a Rio dei Cozzi poggia in discordanza su un substrato miocenico di torbiditi appartenenti alla Formazione Marnoso-arenacea; in situ si può notare molto bene la differenza tra le due unità, con le torbiditi mioceniche ben stratificate ma più erose su cui poggia la roccia calcarea più resistente, che forma una sorta di tettoia naturale che sporge sul sentiero.

La visita allo “spungone” di Rio dei Cozzi ha concluso l’escursione sul terreno ma non la giornata di congresso, perché una volta rientrati a Faenza i congressisti hanno potuto visitare il Museo Internazionale delle Ceramiche. Faenza è rinomata per le sue ceramiche, e il museo ha l’obiettivo di raccontare la storia di quest’arte millenaria; è più un museo archeologico che artistico, poiché espone pezzi contemporanei ma anche reperti antichi che risalgono all’antico Egitto o alle civiltà precolombiane. Esula un po’ dal contesto tipico dei paleontologi ma se vi capita di passare per Faenza merita una visita, ovviamente insieme al Museo di Scienze Naturali.

In ogni modo, dopo aver nutrito la mente è infine giunto il momento di nutrire anche il corpo, perciò la seconda giornata ha avuto degna chiusura alla sede del Rione Rosso (uno dei quartieri in cui è diviso il centro storico di Faenza) per un’altra delle immancabili tradizioni delle Giornate di Paleontologia: la cena sociale. E dopo una serata trascorsa a mangiare, bere e ascoltare buona musica ci si è dati la buonanotte per ritrovarsi l’indomani per l’ultima giornata di congresso.

 

Arriviamo così a venerdì 27 maggio, giornata conclusiva dei Paleodays 2016, che ha visto il ritorno al Museo di Scienze Naturali dove è stato dato nuovamente spazio ad altre comunicazioni orali. Nelle quattro sessioni della giornata sono stati presentati lavori su tecniche e metodologie d’indagine di brachiopodi e bivalvi, su vari taxa di mammiferi, rettili e più in generale associazioni fossili del Cretaceo e di vari momenti del Cenozoico, sullo studio dei foraminiferi allo scopo di ricostruire le variazioni climatiche negli ultimi tre millenni. Avendo il sottoscritto una dichiarata preferenza per i grandi rettili mesozoici, la comunicazione che più ha colto la mia attenzione ha riguardato la presentazione di uno studio sul vincolo imposto all’evoluzione del volo attivo dal sistema di ventilazione accessorio detto cuirassale, basato sul meccanismo che collega i gastralia al pube tramite il muscolo ischiotruncus, e su come il passaggio a un diverso sistema di ventilazione abbia permesso al pube dei teropodi precursori degli uccelli di ruotare all’indietro, creando così uno dei presupposti anatomici basilari per evolvere un volo attivo e controllato. Non mi dilungo più di tanto ma dico solo che si tratta di un lavoro davvero brillante a opera di una giovane paleontologa molto promettente.

Il congresso si è chiuso con l’annuale assemblea dei soci sui cui contenuti non sto a tediare ulteriormente chi ha avuto la pazienza di leggere fino a questo punto, ma una cosa posso anticiparla ed è la proposta di candidatura di Anagni come sede del congresso del 2017.

Parallelamente allo svolgimento dei lavori è doveroso menzionare anche le iniziative del PaiP, prima fra tutte l’asta volta a raccogliere fondi da investire in borse di studio e nelle attività della SPI; così come l’anno scorso, anche stavolta in molti hanno offerto libri, monografie o anche oggetti da collezione come francobolli e ciondoli; la cifra raccolta è stata consistente, superando i 400 euro destinati a rimpinguare le casse della SPI.

 

Quindi, per concludere questa neanche tanto breve cronaca delle Giornate di Paleontologia, ancora una volta sono state un’esperienza molto positiva. E’ davvero stimolante potersi confrontare con persone con i propri stessi interessi e ambiti di studio, scambiarsi idee e anche imparare qualcosa di nuovo e allargare i propri orizzonti.

Vale la pena menzionare una volta di più la grande partecipazione dei giovani ricercatori, studenti, laureati, dottorandi e paleontofili che ormai rappresentano la stragrande maggioranza dei partecipanti al congresso e che sono ormai anche parte integrante degli organi direttivi della Società. E’ la riprova che la comunità paleontologica italiana è più viva che mai, e che a dispetto della difficile situazione della ricerca in Italia le nuove generazioni di paleontologi sono pronte a prendere in mano le redini di questa scienza tanto affascinante.

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