In quale luogo, da chi e dove si è originata la nostra specie?

Davide Bertè 5 marzo 2012

In quale luogo, da chi e dove si è originato Homo sapiens, la nostra specie?

Le principali teorie sono due: quella multiregionale e quella dell’out of Africa (uscita dall’Africa).

Davide Bertè
Davide Bertè

La teoria multiregionale, avanzata da Wolpoff negli anni ’80 dello scorso secolo, sostiene che Homo sapiens si sia evoluto indipendentemente nei vari continenti dalle specie ivi presenti. Le differenze tra popolazioni sarebbero poi state mitigate da un continuo flusso genico tra popolazioni contigue.

La teoria dell’out of Africa, avanzata da Stringer nei primi anni ’80, sostiene che ci siamo evoluti da una piccola popolazione in Africa (un isolato periferico) e da lì ci siamo diffusi nel resto del mondo. Le specie presenti precedentemente nei vari continenti sarebbero state sostituite dalla nostra.

Queste le due teorie rivali fino al 1987, quando venne fatto il primo studio genetico sulle popolazioni attuali per capire dove era avvenuta la nostra prima origine. Per capirlo si era ricorsi allo studio del DNA mitocondriale (mtDNA). I mitocondri sono degli organelli cellulari, di origine simbiontica, dotati di proprio DNA. Hanno tutta una serie di proprietà che li rendono molto interessanti:

  1. poiché ci sono molti mitocondri in ogni cellula, il mtDNA è molto abbondante. (Una cellula somatica contiene circa 10mila copie di mtDNA ma solamente due copie di DNA nucleare).
  2. Il tasso di mutazione è elevato e quindi permette di calibrare l’orologio molecolare anche per una specie giovane come la nostra. (L’orologio molecolare è un metodo che, in base al numero di mutazioni in una sequenza, permette di stabilire una data di divergenza tra due linee)
  3. É ereditato esclusivamente per via materna.

Quest’ultimo punto semplifica molto la ricostruzione delle linee filogenetiche. Infatti, se torniamo indietro di una generazione avrò due antenati (il padre e la madre), a due generazioni altri 4 antenati (i 4 nonni) e a 5 generazioni avrò già 32 antenati. Considerando il mtDNA, invece, avrò sempre una unica capostipite, in quanto considererò solo la linea di discendenza diretta da madre in figlia.

Ci si attende che il ramo più antico, con un maggior numero di generazioni, abbia avuto maggior tempo di subire mutazioni: questa è la situazione che si riscontra in Africa. La nostra capostipite era africana (quella che è stata soprannominata “Eva mitocondriale”).

Tarando l’orologio molecolare si è giunti alla conclusione che la nostra origine è avvenuta circa 200ka fa.

Studi successivi sul cromosoma Y (trasmesso di padre in figlio), sul cromosoma X (trasmesso in linea materna) e altri tratti selezionati del genoma hanno confermato sia l’origine africana che la data.

L’out of Africa non va considerato come una migrazione ma come una diffusione di una specie in seguito ad un Leggi tutto “In quale luogo, da chi e dove si è originata la nostra specie?”

Genetica molecolare e lotta ai tumori: a che cosa serve la ricerca di base?

Caterina Iofrida 5 marzo 2012

Cate per scienzafacile
Cate per scienzafacile

Avendo studiato per anni la genetica dei tumori da un punto di vista molto specifico, ovvero dal punto di vista del coinvolgimento di un gene (BRCA1: breast cancer 1, early onset) in una malattia (il cancro al seno), mi sono spesso sentita chiedere a che cosa serva la ricerca di base in questo campo.

La mia risposta (che scrivo qui per chiarirla bene prima di tutto a me stessa!) necessita di due argomentazioni fondamentali.

La genetica dei tumori non aiuta a capire solo le cause dei tumori con una predisposizione genetica, ma, attraverso lo studio di questi, contribuisce a spiegare in generale tutti i tipi di tumore. Non solo, la ricerca di base, studiando le cellule tumorali, ci può portare alla spiegazione di meccanismi molecolari delle cellule normali.

Faccio l’esempio di BRCA1, che mi torna comodo!

BRCA1 è un gene associato alla predisposizione al cancro al seno: questo significa che vi sono mutazioni di questo gene che conferiscono al portatore una percentuale di rischio maggiore, rispetto a chi non le ha, di sviluppare tale tumore nel corso della vita. Inoltre, si sa che la maggior parte delle mutazioni associate al cancro trovate in questo gene sono mutazioni che portano ad una perdita di funzione: in poche parole, è più probabile sviluppare il tumore quando la mutazione di questo gene provoca una proteina che non funziona. Questo implica che, quando BRCA1 è invece funzionale, costituisca un soppressore di tumore: contribuisce cioè a prevenire lo sviluppo di questa malattia.

Per molto tempo, l’azione di soppressore di tumore al seno di BRCA1 ha costituito un dato di fatto, di cui però non si conoscevano le ragioni. Ancora oggi, il suo coinvolgimento in questo tumore non è stato spiegato completamente: questo soprattutto perché il meccanismo di questo coinvolgimento non riguarda un unico processo cellulare ma ha a che fare con varie tra le molteplici funzioni di questo gene.

Ok, ma veniamo al ruolo della ricerca.

Se si trova che un dato gene è associato ad una malattia la ricerca può andare a vedere che cosa succede ad altre molecole quando la funzione del gene è modificata o annullata. Se non si conoscono ancora i processi in cui il gene è coinvolto, come nel caso di BRCA1, si fa uno “screening” dell’intero genoma, che può esser fatto con vari tipi di tecniche che non mi interessa raccontarvi oggi e in questa sede.

Basti dire che questo “screening” generale permette di individuare molecole che interagiscano con il gene di interesse o siano influenzate dalla sua funzione, che facciano parte insomma di macchinari molecolari comuni.

Può essere che si trovino collegamenti del gene a processi ben conosciuti e di cui si conoscono già gli “attori principali”: questo è il caso, ad esempio, della scoperta del collegamento di BRCA1 con un sistema cellulare di degradazione delle proteine (ubiquitinizzazione). Poi, può anche accadere che si trovino collegamenti del gene con gruppi di proteine che non siano ancora stati collegati tra loro e di cui non si conosca ancora la funzione approfonditamente: è il caso del BASC (Brca1-Associated Surveillance Complex), un “macchinario di sorveglianza del DNA”. Questo “macchinario molecolare”, come oggi si sa, è costituito da un gruppo di proteine che garantiscono l’integrità e la copia fedele, al momento della divisione cellulare, del DNA destinato alle cellule figlie. Laddove vi sia un danno al DNA, questo macchinario deve indurre un blocco del ciclo cellulare e, se possibile, riparare il danno per poi far ripartire il meccanismo di divisione. Se non si riesce a rimediare al danno, il macchinario di sorveglianza deve obbligare la cellula a “suicidarsi” attivando il meccanismo di morte cellulare programmata, chiamato apoptosi. Questo perché, se la cellula non ripara il danno e continua comunque a dividersi, si porta dietro l’errore, generando una nuova mutazione, ed è proprio l’accumulo di queste mutazioni nel corso delle divisioni cellulari che porta, alla fine, allo sviluppo di un tumore.

Il BASC è stato scoperto grazie agli studi fatti su BRCA1, quando ancora si sapeva poco o nulla di questo macchinario proteico, pur conoscendo singolarmente la funzione di alcuni dei suoi componenti. Quindi, lo studio dei meccanismi molecolari coinvolgenti il nostro gene, in questo caso, non ha soltanto aiutato a capire che cosa accada in cellule (e, quindi, in pazienti) con una mutazione di BRCA1, ma ha anche portato a scoprire uno dei meccanismi con cui avviene la “sorveglianza sul DNA” in cellule normali. Questo è un buon esempio di come la ricerca di base, partendo da un problema circoscritto, possa avere ripercussioni a livello molto più ampio. E questa è la mia prima argomentazione a favore della ricerca.

A questo punto, può comunque nascere la domanda classica: ok, dopo aver capito che una ricerca, anche molto specifica, può condurre alla scoperta di qualcosa di importante e ad ampio respiro, tutto questo a che cosa serve?

La risposta costituisce la mia seconda argomentazione.

Sapere come funziona una malattia può aiutare sempre nella cura, fondamentalmente perchè conoscere a fondo un disturbo permette una cura mirata. Ad esempio, una importante parte dei farmaci antitumorali agisce cercando di mandare la cellula in apoptosi, ovvero attivando la Leggi tutto “Genetica molecolare e lotta ai tumori: a che cosa serve la ricerca di base?”

I paradigmi sfatati dell’evoluzione umana

Davide Bertè 29 febbraio 2012

Davide Bertè
Davide Bertè

L’uomo, tra tutte le specie in Natura, è quella di più difficile definizione. Linneo ci classificò come Homo sapiens. È difficile studiare la nostra stessa specie in maniera veramente oggettiva.

Che cosa ci rende effettivamente diversi? Le risposte in passato sono state le più svariate: il cervello di grosse dimensioni, la posizione bipede, etc.

Vediamo di seguito alcuni paradigmi che sono stati sfatati in seguito alle recenti scoperte (ma che spesso sono ancora nell’immaginario comune).

L’evoluzione lineare.

L’immagine dell’evoluzione umana rappresentata come una ineluttabile marcia verso il progresso, con la piccola scimmietta che si trasforma in scimmia bipede imperfetta e che, attraverso una serie di stadi, giunge infine all’uomo, è ben radicata nell’immaginario comune. Ce l’avete ben presente anche voi? Bene. Potete dimenticarla!

In quella immagine è racchiusa tutta una serie di errori che le evidenze (ovvero i fossili) hanno smentito. Innanzitutto si ipotizza che le forme precedenti alla nostra fossero imperfette (in genere sono rappresentate gobbe). Le specie che ci hanno preceduto, invece, erano perfettamente adattate al loro ambiente, e alcune di esse hanno avuto una durata veramente notevole. L’Homo erectus, in Asia, ha una storia di circa 1 milione di anni, l’Homo neanderthalensis è stato in Europa per circa 270 mila anni. La nostra specie è comparsa “solamente” 200 mila anni fa. Dal punto di vista geologico siamo una specie molto giovane.

Un’altra conclusione errata che si trae dall’immagine è che, nel tempo, c’è stata sempre solo una unica specie umana. È solamente dall’estinzione dell’uomo di Neandertal che siamo l’unica specie del genere Homo sul pianeta. Le testimonianze fossili ci raccontano che sono sempre state presenti contemporaneamente più specie del genere Australopithecus e anche del genere Homo.

La nostra specie, per esempio, al momento della sua comparsa ha condiviso il mondo con altri uomini: in Europa era presente l’uomo di Neandertal, in Indonesia c’era l’Homo floresiensis, in Asia si aggiravano ancora gli ultimi Homo erectus, sui monti Altai l’uomo di Denisova…

Encefalizzazione

Con il termine encefalizzazione ci si riferisce all’aumento delle dimensioni del cervello che caratterizza il nostro genere. Il ragionamento classico si può riassumere in “più grande è meglio”. Oggi invece si tende a dire che quantità non è sinonimo di qualità. Per dirla in parole semplici, non necessariamente un cervello molto grande è migliore, ma dipende da come è organizzato.

L’Homo floresiensis è il più piccolo rappresentante del nostro genere e, conseguenzialmente, ha anche un cervello di ridotte dimensioni. Spesso le specie su un’isola, per ottimizzare le risorse e in assenza di predatori, vanno incontro a una riduzione delle dimensioni. È il fenomeno noto come nanismo insulare. L’Homo floresiensis è il risultato di questo processo. Eppure, nonostante il Leggi tutto “I paradigmi sfatati dell’evoluzione umana”

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