Daniele Tona – 11 settembre 2017
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A dispetto di quello che l’iconografia cinematografica può indurre a pensare, normalmente i resti fossili che i paleontologi estraggono dalle rocce sono ben lontani dal fornire un’idea chiara e immediata dell’aspetto dell’organismo al quale appartengono; la norma è rinvenire resti parziali, disarticolati, frammentati o soltanto singoli elementi di scheletri interni o esterni assai più complessi. Un esemplare pressoché intero (diciamo sopra il 90% di completezza), magari anche articolato, che rispecchi fedelmente l’anatomia in vita è un ritrovamento molto più che raro, forse praticamente unico. “Ci vuole un gran feeling”, disse una volta a lezione il mio professore di paleontologia dei vertebrati mimando enfaticamente il gesto che rappresenta la parte del corpo umano tipicamente associata alle clamorose botte di fortuna.
Eppure, alle volte, la natura è capace di superare la più vivida immaginazione, e ci regala fossili talmente completi e ben conservati da pensare che siano troppo belli per esser veri: Archaeopteryx, con le sue piume impresse sul calcare litografico che hanno dimostrato che le idee di Darwin non erano eresie senza capo né coda; Scipionyx, che pur non avendo conservato la copertura esterna di piume (perché possiamo dare praticamente per scontato che la bestiola in questione fosse piumata) ci ha dato un’immagine di come dovessero essere le interiora di un dinosauro; la ricca fauna di Messel, che ha preservato i peli, le squame e le piume degli animali come se fossero stati sepolti da pochi giorni anziché da cinquanta milioni di anni. La lista potrebbe andare avanti per un po’, in ogni modo tutti questi esempi, per eccezionali che siano dal punto di vista della conservazione, sono comunque stati vittima di processi che in qualche maniera li hanno modificati schiacciandoli, asportando delle parti o disarticolandole, più in generale alterandoli quel tanto che basta da non poter più rendere adeguatamente l’aspetto di quell’organismo vivo, vegeto e in tre dimensioni.
Ecco dunque che la natura parte in contropiede e fa saltar fuori qualcosa che riesce a ovviare agli inconvenienti che affliggono i pur spettacolari fossili testé citati. Si tratta del fossile di un dinosauro del gruppo degli anchilosauri, ossia quei dinosauri erbivori che hanno portato all’estremo il concetto di protezione sviluppando una vera e propria armatura di piastre ossee che ricopriva il dorso, la coda e la testa, spesso corredata di lunghi spuntoni e, nel caso della famiglia Ankylosauridae, anche di una mazza all’estremità della coda composta da placche spesse e robuste che potevano facilmente spezzare le gambe a qualunque predatore in cerca di guai.
L’esemplare in questione è incompleto, poiché privo della coda, delle zampe posteriori e di parte della regione del bacino. Detto così non sembrerebbe all’altezza degli illustri esempi citati qualche riga più su, ma ciò che lo rende davvero straordinario è il modo con cui si è conservata la parte di corpo rinvenuta: i singoli elementi che componevano l’armatura di questo dinosauro hanno infatti mantenuto la stessa posizione che avevano quando l’animale era vivo, senza subire disarticolazione, trasporto o frantumazione, e il fossile non è stato neppure appiattito dal peso dei sedimenti soprastanti. In altre parole, significa che la parte di corpo preservata è una riproduzione pressoché perfetta del dinosauro quando è morto, e se noi tornassimo indietro nel tempo fino a poco prima che morisse esso avrebbe avuto lo stesso aspetto (in termini di conformazione della testa, disposizione delle piastre ossee, proporzioni corporee e quant’altro) immortalato nella roccia dai processi di fossilizzazione. Sembra una banalità, ma molte volte la frammentarietà dei resti fossili costringe ad accontentarsi di mere ipotesi quando si tratta di ricostruire le fattezze di un organismo estinto, e tali ipotesi sono tanto più speculative quanto più scarsi sono i resti a disposizione dei paleontologi. Basta pensare a Deinocheirus: fino a quando erano note solo le braccia l’unica cosa certa era la famiglia a cui apparteneva; quando poi è saltato fuori il resto dello scheletro si è capito che la sua anatomia era molto più bizzarra di quanto gli studiosi avessero potuto immaginare. Leggi tutto “Borealopelta, ovvero come la natura non smette mai di sorprendere”