Alla riscoperta dello Spinosauro

di Davide Bertè e Daniele Tona – settembre 2014

1944, Monaco di Baviera – Germania.

Davide Bertè
Davide Bertè

L’Europa è devastata già da cinque anni da quella che sarà nota nei libri di storia come Seconda Guerra Mondiale. E’ la notte tra il 24 e il 25 aprile, e il Quinto Gruppo del Bomber Command dell’aeronautica militare inglese bombarda Monaco di Baviera, importante centro di potere del nazionalsocialismo. Tra i vari edifici distrutti durante l’attacco v’è anche il Museo di Storia Naturale,

le cui collezioni vengono annientate. In particolare, ai fini della storia che vogliamo raccontare, viene distrutto anche l’unico esemplare noto di spinosauro (Spinosaurus aegyptiacus).

Daniele Tona
Daniele Tona

Dell’esemplare rinvenuto presso l’oasi di Baharia in Egitto, rimane fortunatamente la descrizione redatta da Ernst Stromer (1870-1952) nel 1915, poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, in un lavoro molto accurato e corredato da splendide tavole molto dettagliate.

Nel dopoguerra i resti di spinosauro rinvenuti furono molto rari e di fatto di questo animale restava in gran parte misterioso. Questo fino a pochissimo tempo fa, quando è stata annunciata la scoperta di nuovo materiale fossile appartenente a questo dinosauro. L’anteprima europea si è tenuta presso il Museo di Storia Naturale di Milano il 18 settembre 2014 in quanto questo importante lavoro (Ibrahim et al. 2014, pubblicato sulla rivista Science), che ha fatto luce su diversi aspetti prima sconosciuti di questo animale, ha visto una forte partecipazione da parte di un’equipe italiana.

Spinosauro - Stromer 1915
Spinosauro – Stromer 1915

La nostra storia comincia con il rinvenimento nella regione del Kem Kem, in Marocco, di alcune vertebre caratterizzate da processi neurali molto lunghi. La fotografia dei reperti lascia di stucco i paleontologi Cristiano dal Sasso e Simone Maganuco, che capiscono di trovarsi di fronte a qualcosa di eccezionale. I due paleontologi meneghini conoscono bene lo spinosauro in quanto nel Museo Civico di Storia Naturale di Milano è conservato il cranio più grande rinvenuto finora, proveniente dal Marocco. Viene avviata una collaborazione con il collega Nizar Ibrahim di Casablanca, in possesso di altri frammenti dello stesso esemplare e con altri paleontologi americani di Chicago. I finanziamenti della National Geographic Society, ottenuti grazie al coinvolgimento del paleontologo americano Paul Sereno, rendono possibile l’avvio di una cooperazione internazionale tra i paleontologi dei vari paesi, il cui risultato è il lavoro presentato a Milano nei giorni scorsi.

Davide Bonadonna (illustratore) - Cristiano Dal Sasso (Paleontologo, curatore al Museo St.Nat. di Milano) - Dawid Iurino (per le TAC) - Simone Manganuco (Paleontologo - PHD a Firenze)
Davide Bonadonna (illustratore) – Cristiano Dal Sasso (Paleontologo, curatore al Museo St.Nat. di Milano) – Dawid Iurino (per le TAC) – Simone Manganuco (Paleontologo – PHD a Firenze)

Benché noto alla scienza ormai da un secolo, lo spinosauro è divenuto celebre tra il grande pubblico solo nel 2001 con la pellicola Jurassic Park III, dove sfida e sconfigge il terribile T. rex. Nella realtà tale incontro non sarebbe mai potuto avvenire perché lo spinosauro visse tra i 112 e i 97 milioni di anni fa (Albiano-Cenomaniano, nel periodo Cretaceo), ovvero più di 30 milioni di anni prima del tirannosauro, vissuto tra 68 e 65 milioni di anni fa nel Maastrichtiano. Di sicuro non sarebbe stato capace di spezzare il collo al T. rex come fa nel film, dato che le sue mascelle erano molto strette e con ogni probabilità incapaci di resistere alle forze in gioco, ma c’è del vero nel fatto che lo spinosauro è il più grande dinosauro teropode scoperto finora: il lavoro di Ibrahim e colleghi stima una lunghezza di circa 15 metri e un peso intorno alle 7 tonnellate per il proprietario del rostro marocchino ospitato a Milano, il che lo renderebbe di un paio di metri più lungo del tirannosauro più grande conosciuto, l’esemplare soprannominato Sue. Lo spinosauro reale era però ben diverso da quello cinematografico; come vedremo fra poco, era molto, molto più bizzarro, come neanche lo sceneggiatore più fantasioso sarebbe riuscito a concepire.

Lo spinosauro è classificato all’interno degli Spinosauridae, una famiglia abbastanza primitiva di dinosauri teropodi all’interno dei tetanuri, il gruppo che spazia da Compsognathus (uno dei più piccoli dinosauri conosciuti, uccelli esclusi) al nostro Spinosaurus (il più grande teropode noto). Il genere Spinosaurus era tipicamente africano ma agli spinosauridi appartenevano anche generi provenienti da altre parti del mondo: dal Sudamerica sono noti Irritator e Angaturama, finora rinvenuti solo in Brasile (e che forse erano lo stesso animale), così come Oxalaia; in Europa era presente il genere Baryonyx (che in greco significa “artiglio pesante”), così chiamato per il grande artiglio, lungo una ventina di centimetri, presente sul pollice; dal Niger proviene invece Suchomimus (“simile a un coccodrillo” per via del muso allungato), mentre nel Laos è stato rinvenuto Ichthyovenator. Proprio il confronto con gli altri membri della famiglia, in particolare con Suchomimus del quale è ben nota l’anatomia, ha permesso di delineare in modo più dettagliato l’aspetto dello spinosauro.

 Originariamente raffigurato con la testa alta e triangolare come quella del tipico teropode, il rostro del Museo di Milano ha invece dimostrato che la testa dello spinosauro era più simile a quella di un grosso coccodrillo, caratterizzato però dalla presenza di una vela sul dorso. La vera peculiarità di questo dinosauro non erano tuttavia le dimensioni, bensì il grande adattamento a una vita semi-acquatica nei grandi fiumi che ai suoi tempi scorrevano nella regione del Marocco, oggi desertica, da cui provengono i reperti più recenti. Si tratta del primo caso accertato di un dinosauro con queste abitudini, laddove fino ad ora erano considerati animali strettamente terrestri.

Spinosaurus aveva un cranio lungo fino a 1,7 m, caratterizzato da un muso allungato e sottile che si allarga nella parte terminale dove sono presenti numerosi forami. La scansione TAC del muso è stata affidata alle sapienti mani del paleontologo romano Dawid Iurino, che ha pazientemente seguito la diramazione di tutti i nervi cranici convalidando l’ipotesi secondo cui i forami ospitavano un organo di senso meccanocettore che permetteva di percepire le variazioni di pressione nell’acqua; grazie a questo complesso organo di senso lo spinosauro era in grado di cacciare anche di notte o in acque torbide, avvertendo la presenza delle prede in base ai loro movimenti e allo spostamento dell’acqua che questi producevano. Strutture simili sono note nei coccodrilli e sono state osservate anche nei rettili marini del gruppo dei pliosauri; nello spinosauro erano però talmente specializzate che le terminazioni nervose a cui erano collegate, a loro volta unite al nervo trigemino, non innervavano anche i denti come avviene negli altri casi ed erano esclusivamente deputate alla funzione di rilevamento.

Sempre a livello del cranio i numerosi denti conici e distanziati fra loro erano un ulteriore adattamento per catturare i pesci; a differenza dei denti seghettati e compressi lateralmente presenti nella maggior parte degli altri teropodi, atti a tagliare e tranciare, quelli dello spinosauro dovevano afferrare e trattenere prede scivolose e quindi dovevano agire più come delle ganasce che come dei coltelli. Anche le narici si differenziavano nettamente, aprendosi in posizione arretrata sul muso per limitare l’ingresso di acqua nelle vie respiratorie.

Riguardo alla colonna vertebrale si nota che i centri delle vertebre cervicali e dorsali sono più lunghi rispetto a quelli delle vertebre sacrali, allungando di conseguenza il collo e il tronco; fanno eccezione i centri delle vertebre dorsali in posizione più prossimale (alla base del collo, in sostanza), che al contrario sono proporzionalmente più corti e larghi creando così un’articolazione che facilita il movimento del collo. Vertebre di questo tipo erano già note ed erano state attribuite a Sigilmassasaurus, del quale curiosamente si trovavano solo vertebre della base del collo e nient’altro; le recenti scoperte hanno dimostrato che in realtà il resto del corpo esisteva eccome, ed era lo spinosauro! Da qui la decisione di riassegnare quelle ossa a Spinosaurus colmando ulteriori parti mancanti del mosaico.

Arriviamo infine alla coda, i cui due terzi più distali hanno vertebre con centri corti e archi neurali ridotti, un adattamento simile a quello dei pesci che migliora il movimento laterale della coda ai fini della propulsione.

Spinosaurus. Confronto dimensionale e sezione degli ossi lunghi
Spinosaurus. Confronto dimensionale e sezione degli ossi lunghi

Uno dei caratteri che contraddistinguono a prima vista Spinosaurus è senza ombra di dubbio la grande vela sul dorso. Le vertebre dorsali dello spinosauro hanno dei processi neurali molto lunghi, fino a due metri, che formavano la vela che ha valso all’animale il suo nome (letteralmente “lucertola spinosa dell’Egitto”). I paleontologi si sono interrogati a lungo sulla funzione della vela e le ipotesi più accreditate erano due: una funzione di termoregolazione oppure come segnale per comunicare con altri individui della stessa specie. La nuova ricerca chiarisce anche questa questione, svelando che le vertebre avevano una struttura massiccia e compatta, priva della vascolarizzazione superficiale necessaria a una funzione termoregolatrice, ed erano quindi poco adatte a scambi di calore. Acquista perciò maggior valore la funzione di riconoscimento (o anche – perché no? – di avvertimento, del tipo “io sono qui, sono lungo quindici metri e questo è il mio territorio, entrate a vostro rischio e pericolo”); qualcuno ha persino suggerito che potesse essere una sorta di deriva al contrario, che serviva a evitare che lo spinosauro si ribaltasse mentre nuotava. Il dibattito, insomma, è ancora decisamente aperto.

Un’altra prova dell’adattamento alla vita nell’acqua è rappresentato dalle modifiche al cinto pelvico e agli arti posteriori. Le ossa degli arti, come le costole, erano molto compatte e pesanti, in controtendenza con le estese cavità che si osservano in altri teropodi, uccelli in primis. L’assenza, o comunque la forte riduzione, delle cavità midollari è una condizione tipica dei vertebrati fortemente specializzati per una vita acquatica, come i pinguini o le balene: le ossa pesanti infatti favoriscono le immersioni e stabilizzano il corpo sott’acqua, appesantendolo e contrastando la spinta verso l’alto causata dai polmoni pieni d’aria; gli autori, in effetti, paragonano il grado di adattamento dello spinosauro a quello degli archeoceti, cetacei arcaici già adatti alla vita acquatica ma ancora in grado di muoversi sulla terraferma.

Dal punto di vista morfologico le zampe posteriori sono caratterizzate da quattro dita funzionali con artigli larghi e piatti, in cui anche il primo dito contribuiva al movimento (negli altri teropodi era in genere ridotto e non toccava terra), e probabilmente erano anche palmate in modo da coadiuvare il nuoto. Si può anche notare un’ampia superficie di inserzione dei muscoli caudofemorali, sia sull’ileo sia sul quarto trocantere del femore, a indicare muscoli che consentivano una potente flessione della gamba, e quindi un più energico movimento della stessa nel darsi la spinta durante il nuoto. Lo stesso femore è più corto della tibia di modo da rendere tale movimento più efficiente.

Si pensa che lo spinosauro nuotasse spingendo alternativamente con le gambe come alcuni uccelli acquatici odierni, e che la coda offrisse supporto al nuoto ondeggiando come quella dei coccodrilli. Lo scheletro ricostruito virtualmente ha evidenziato il baricentro molto spostato in avanti, con le zampe posteriori molto più corte e quelle anteriori molto più lunghe rispetto agli altri teropodi; da ciò sembra difficile che lo spinosauro potesse mantenere una postura bipede fuori dall’acqua, poiché si sarebbe sbilanciato in avanti. Si ritiene quindi che sulla terraferma la sua andatura fosse quasi da quadrupede, con le braccia che fungevano da occasionale puntello per darsi la spinta senza però sorreggere stabilmente il corpo. Il suo modo di camminare doveva essere dissimile da quello della maggior parte degli animali di oggi, e comunque sono in corso studi biomeccanici volti a far luce su questa questione ancora tutta da chiarire.

 

L’habitat dello spinosauro era una vasta rete di corsi d’acqua, caratterizzati dall’abbondanza di pesci e da un’apparente scarsità di erbivori. Si conosce una sessantina di specie vissute in quell’ambiente; tra i teropodi vi sono Carcharodontosaurus, grossomodo della stessa taglia dello spinosauro ma più vicino al tirannosauro come ruolo ecologico, il più piccolo Rugops e Bahariasaurus (e Deltadromeus, forse suo sinonimo), dotato di corpo snello e lunghe gambe; tra i dinosauri erbivori ricordiamo il sauropode Rebbachisaurus; c’erano anche pterosauri e varie specie di coccodrilli, tra cui Laganosuchus dal peculiare muso piatto, mentre tra i pesci (e quindi le potenziali prede dello spinosauro) sono annoverati il celacanto Mawsonia, lungo 4 metri, il pesce sega Onchopristis, che poteva arrivare anche a 6-7 metri, e il pesce polmonato Ceratodus. Si pensa che lo spinosauro cacciasse questi pesci afferrandoli con le mascelle e trascinandoli a riva, dove li tratteneva coi denti e nel contempo li faceva a pezzi con gli artigli delle mani, affilati e compressi lateralmente per fendere meglio la carne.

In generale si può dire che quello dello spinosauro era un adattamento estremo, intimamente legato alle specifiche condizioni ambientali in cui questo dinosauro si è evoluto. Un adattamento così spinto fu però anche la sua condanna, poiché quando un innalzamento del livello dei mari (ciò che si definisce una trasgressione marina) ha cancellato il sistema fluviale in cui viveva non è stato in grado di adattarsi alle nuove condizioni ambientali e si è estinto.

Quale che sia stato il suo destino, lo spinosauro è la dimostrazione che i dinosauri erano (e sono ancor oggi) creature straordinarie, capaci di adattarsi e assumere forme incredibili, talvolta persino oltre la nostra immaginazione. Gli autori dell’articolo hanno dichiarato di essere al lavoro sulla monografia dettagliata dello spinosauro; possiamo dunque stare certi che questo animale non ha ancora finito di sorprenderci.

 

Bibliografia:

  • Stromer, E., Wirbeltier-Reste der baharije-Stufe (unterstes Cenoman).3 Das Original des Theropoden Spinosaurus aegyptiacus nov. gen. et nov. spec in Abhandlungen der Königlich Bayerischen Akademie der Wissenschaften Mathematisch-physikalische Klasse Abhandlung, vol. 28, 1915, pp. 1-32.

  • Ibrahim N., Sereno P.C., Dal Sasso C., Maganuco S., Fabbri M., Martill D.M., Zouhri S., Myhrvold N., Iurino D. (2014) Semiacquatic adaptations in a giant predatory dinosaur. Science. DOI: 10.1126/science.1258750

Buon anno!

Scienzafacile augura a tutte e tutti un ottimo anno scolastico.

Speriamo che sia un anno curioso e ricco di spunti

Che sia ricco di competenza, ricchissimo di veri insegnanti

e di studenti vogliosi di imparare.

E speriamo di non deludere gli appassionati!

A presto!

…su scienzafacile.it.

Ghiacciaio del Pre de Bar – Storia di avanzate e ritiri negli ultimi 20000 anni

Stefano Rossignoli 29 luglio 2014

ghiacciaio di pre de bar 1983 sf
ghiacciaio di pre de bar 1983 per scienzafacile.it

Ho revisionato appena ora l’articolo sottostante che tratta di ghiacciai e di uno in particolare, quello di Pre de Bar sul quale ho girato anche un breve video-post durante l’estate 2012.

Ieri, mio papà ha voluto perdersi nei ricordi e ha rovistato tutta la sera nel borsone delle fotografie di famiglia. Un album di fotografie scattate in Val Ferret mi ritraeva piccino, all’età di circa 10 anni durante una gita in cui andammo ad osservare la fronte del Ghiacciaio di Pre de Bar (rigorosamente da lontano… “Non ci si avvicina alle fronti dei ghiacciai. E’ pericoloso” ripeteva insistentemente mio papà! …come dargli torto in questo e in molti altri casi?).

E’ dunque intorno al 1983 che è stata scattata questa splendida immagine di apertura che può solo far morire d’invidia noi, amanti dei ghiacci alpini che vanno scemando di anno in anno. (ingranditela e godetevela cliccandoci sopra!)

Auguriamoci almeno che gli anni senza estate come questo servano ad addobbare di nuovo le alte vallate alpine e appenniniche, nonché  a regalarci riserve abbondanti d’acqua per il futuro…

Stefano Rossignoli 27 settembre 2012

Ghiacciaio di Pre de Bar - La netta linea di separazione...
Quel che resta del Ghiacciaio di Pre de Bar e la netta linea di separazione…

Scherzosamente, io e il mio socio di trekking Daniele abbiamo definito la nostra vacanza, una vacanza scientifica perchè, per mia fortuna, durante il nostro trekking 2012 (vedi gli altri trekking qui) io ero molto allenato, lui un po’ meno, allora ne approfittavo sempre per chiacchierare, spiegare, puntualizzare su tutto ciò che vedevamo e per mia fortuna Daniele ascoltava senza annoiarsi…

Il nuovo video post riguarda le avanzate e i ritiri del Ghiacciaio di Pre de bar in alta Val Ferret (AO) e in questo frangente volevo spiegare brevemente come si può ricostruire la sua storia semplicemente dai depositi lasciati e, in questo caso, semplicemente dal colore dei depositi e dall’attività erosiva …ma forse è meglio se prima vi guardate il video.

Bene. Da cosa dipende la differenza di colore tra l’alloggiamento del ghiacciaio negli anni 80/primi anni 90 e quello invece più antico della Piccola Età Glaciale? Dipende soprattutto dalla vegetazione…

I sassi, ecc lasciati liberi negli anni 90 non sono ancora stati popolati dalla vegetazione. Forse solo da qualche lichene o poco altro, mentre le zone libere dal ghiacciaio da oltre 100 anni sono ricche di copertura vegetale.

Anche gli alberi, man mano che passa il tempo riescono a colonizzare le morene glaciali fino a certe quote, ma hanno bisogno di tempo appunto.

Quindi, dalla copertura vegetale da cui dipende anche il colore delle morene si può ricostruire da quanto tempo queste siano state abbandonate dal ghiacciaio. Il colore delle rocce delle morene dipende anche dall’alterazione chimica ma anche le reazioni chimiche hanno bisogno di tempo…

Questo ovviamente lo si può fare anche ad occhio per casi come questo…

Un altro fattore importante per comprendere da quanto tempo il ghiacciaio se ne sia andato, è quello dell’erosione.

Superfici appena abbandonate presentano spigoli netti (morene aguzze ad esempio) ed intensa attività erosiva e gravitativa.

Superfici antiche sono sempre più arrotondate e smussate man mano che l’età aumenta…

Così, e con un po’ di esperienza si può ricostruire la storia di un ghiacciaio nelle ultime migliaia di anni.

Da sottolineare che oggi la vegetazione è anche misurabile. La lichenometria (studio della dimensione dei talli lichenici) e soprattutto la dendrogeomorfologia (studio degli anelli di accrescimento dei fusti degli alberi in base alla loro posizione nello scenario geologico) ci ‘regalano’ ogni giorno nuovi dati per comprendere al meglio i cambiamenti dei ghiacciai: indicatori climatici e ambientali di prim’ordine.

Con questo vi saluto e vi do appuntamento alla ricostruzione di avanzate e ritiri glaciali in base alla morfologia di una valle laterale della Val Ferret.

A presto.

Stefano Rossignoli

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