13 gennaio 2015 – Scrivo una brevissima presentazione, soprattutto per ringraziare Davide per aver reso disponibile questo prezioso testo a lettrici e lettori di scienzafacile.it che troveranno curiosa questa raccolta di notizie, nonché utilissima nello studio della paleobiogeografia e paleoecologia.
Recentemente gli è stato commissionato un capitolo intitolato “Paleontologia e paesaggio” da inserire in un libro che parla del “Paesaggio” in senso ecologico, ovvero, una visione più ampia dell’ecosistema per cui vi riporto a due letture, ma prima leggete l’estratto di Davide che ci racconta dei ripetuti passaggi di mammiferi tra le due Americhe!
Il libro per cui ha scritto Davide uscirà a breve in Brasile ma noi abbiamo una delle fonti che parla e scrive nella nostra lingua e siamo contenti di poterne approfittare!
Grazie Davide!!!
SR
Circa tre milioni di anni fa l’emersione dell’istmo di Panama mise in collegamento il continente nord americano con quello sud americano.
Il Sud America terminò così un lungo periodo di isolamento cominciato circa 84 milioni di anni fa, quando si era separato dall’Africa. L’apertura dell’Atlantico meridionale durante il Cretaceo Superiore, l’ultima epoca del Mesozoico, determinò quindi la separazione di Africa e America meridionale.
Quando avvenne la separazione, gli ecosistemi delle terre emerse erano ancora dominati dai grandi dinosauri ma i mammiferi erano già presenti e differenziati nei principali gruppi: prototeri o monotremi (che depongono le uova), metateri o marsupiali ed euteri o placentati.
Con la separazione dall’Africa animali e piante sudamericane si ritrovarono completamente isolati dal resto del mondo; circa 65 milioni di anni fa l’estinzione dei dinosauri rese disponibili numerose nicchie ecologiche e i mammiferi ebbero una straordinaria radiazione adattativa.
Il Sud America funse da enorme laboratorio naturale e le strade dell’evoluzione portarono i marsupiali qui presenti verso soluzioni adattative uniche. Molte delle forme evolute in Sud America erano endemiche di questo continente e non avevano corrispettivi nel resto del mondo. Tra i gruppi più importanti vi erano sicuramente gli xenartri, che devono il loro nome (in greco: “strana articolazione”) alla presenza di una articolazione accessoria tra le vertebre, assente in tutti gli altri mammiferi. Al superordine degli xenartri appartengono vermilingui (formichieri), pilosi (bradipi) e cingulati (armadilli). Tra i rappresentanti estinti di questo gruppo ricordiamo i gliptodonti, i bradipi di terra e i pampateri. Altri mammiferi erano inclusi nel superordine dei meridiungulata, che includevano piroteri (simili agli elefanti, con tanto di incisivi trasformati in zanne), astrapoteri (simile a un ippopotamo, forse con una piccola proboscide, zampe posteriori robuste e quelle anteriori esili), notungulati (un gruppo molto diversificato che includeva animali di taglia variabile tra quella di un coniglio e quella di un rinoceronte) e litopterni (simili ai camelidi, il rappresentante più famoso di questo gruppo è Macrauchenia). I predatori principali erano grossi uccelli inetti al volo. Tra i mammiferi predatori vi erano gli sparossodonti che includevano tilacosmilidi, borienidi e proborienidi.
Pur avendo una dieta a base di carne, questi marsupiali non erano imparentati con l’attuale ordine Carnivora, appartenente ai mammiferi placentati.
Infine vi erano i paucitubercolati, un gruppo di piccoli mammiferi insettivori o frugivori a cui attualmente appartengono solo i cenolestidi o opossum-toporagno con un areale limitato alle Ande.
Di queste faune sorprendono soprattutto le convergenze evolutive di forme molto distanti tra loro verso soluzioni anatomiche simili, come per esempio la Macrauchenia, un mammifero litopterno sudamericano molto simile al lama, un camelide oggi diffuso nelle stesse aree e in ambienti simili. Darwin, durante il suo viaggio intorno al mondo sul brigantino H.M.S. Beagle, ebbe modo di osservare dei fossili di Macrauchenia e notò la grande somiglianza con i camelidi ma anche che il numero di dita che appoggiano per terra era differente. Pur avendo classificato erroneamente Macrauchenia tra i perissodattili (animali che appoggiano sul terreno un numero dispari di dita come cavalli, tapiri e rinoceronti) Darwin tuttavia ebbe, da questo incontro, uno stimolo a ragionare sulla convergenza evolutiva.
Una delle forme di convergenza evolutiva più peculiari è rappresentata sicuramente da Thylacosmilus, una tigre dai denti a sciabola marsupiale. La somiglianza con le vere tigri dai denti a sciabola è straordinaria, soprattutto considerando che Leggi tutto “Quando due mondi collidono: il Grande Scambio Biotico Americano”
Attraversa ancora la stradina pedonale i primi di novembre.
Che bello! Nero, nerissimo con quella meravigliosa striscia gialla sulla schiena!
Mi avvicino, sposto un po’ di foglie gialle, marroni e rosse che gli intralciano il percorso e lo osservo, con la sua andatura serpentina, ondeggiante a destra e sinistra.
Non è goffo ma è lento …è piccolo e un po’ invisibile tra le foglie e l’asfalto.
Ho paura che qualcuno lo investa, allora lo scorto fino a che ha attraversato completamente. Non resisto alla tentazione di sfiorare con le dita la sua pelle morbida e vellutata …e magari anche di prenderlo un attimo tra le mani.
Mi piace. Lo chiamo salamandra ma non lo è! Ho 7 anni. Sono piccolo e un po’ ignorante ma già stregato dalle bellezze della Natura…
Ora non succede più.
Sono passati più di 30 anni ma mi sembra ancora ieri, quando incrociavo i tritoni crestati giovanili su quella stradina nei pomeriggi dei primi di novembre.
Vorrei una fotografia.
Vorrei una fotografia del tritone ma anche di me a 7 anni che prendevo come un gioco il suo attraversamento da fosso a fosso. Li aiutavo, li disturbavo di sicuro, ma ero un bambino…e vorrei esserlo ancora con tutto quel ben di Dio intorno…
Ora però ne ho molte di immagini di quegli animali e anche di molti loro parenti Italiani.
Ho anche moltissime immagini di Rettili; anch’essi tutti Italiani. Italiani come me e come la maggior parte di voi lettori.
E’ così che li considero. Italiani!
Questi piccoli animali sono esattamente come noi, fanno parte del nostro ambiente come noi facciamo parte del loro;
un mondo dagli equilibri delicati sotto ogni punto di vista, anche ambientale.
Ed è così che li ritraggono Marco e Matteo, nel loro ambiente che è anche nostro, in uno stagno dietro casa, o a 2000 metri di quota, davanti alle mura di un castello, nell’atto di cacciare o di sfilare, di accoppiarsi, sulla difensiva e a volte ignari di quel che gli succede intorno, esattamente come noi.
Paludi e Squame, il nuovo libro fotografico di Marco Colombo e Matteo Di Nicola mi riporta ad osservare da vicino questi vertebrati meravigliosi. Sono queste le immagini che ora ho!
Mi riportano anche un po’ in dietro nel tempo, prima che i “nuovi” Gamberi killer della Louisiana si mangiassero tutte le larve dei tritoni e di molti rospi e rane delle mie parti.
I serpenti qui ci sono ancora…ma sempre di meno (Non vi dico dove di preciso, perchè così si fa!). Li osservo stregato durante l’estate ma, guardare le fotografie di Matteo e di Marco mi fa sorridere e rabbrividire ogni volta.
Sono semplicemente strepitose!
Paludi e squame! Un libro da avere in casa e da leggere e sfogliare spesso, per rendersi conto della bellezza di questi piccoli animaletti Italiani …e per rendersi conto di cosa stiamo perdendo.
Grazie a Marco e Matteo per questa raccolta di immagini.
Grazie per queste emozioni.
Conoscere per fotografare, fotografare per conservare…così scrivono sul retro della copertina!
L’Europa è devastata già da cinque anni da quella che sarà nota nei libri di storia come Seconda Guerra Mondiale. E’ la notte tra il 24 e il 25 aprile, e il Quinto Gruppo del Bomber Command dell’aeronautica militare inglese bombarda Monaco di Baviera, importante centro di potere del nazionalsocialismo. Tra i vari edifici distrutti durante l’attacco v’è anche il Museo di Storia Naturale,
le cui collezioni vengono annientate. In particolare, ai fini della storia che vogliamo raccontare, viene distrutto anche l’unico esemplare noto di spinosauro (Spinosaurus aegyptiacus).
Dell’esemplare rinvenuto presso l’oasi di Baharia in Egitto, rimane fortunatamente la descrizione redatta da Ernst Stromer (1870-1952) nel 1915, poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, in un lavoro molto accurato e corredato da splendide tavole molto dettagliate.
Nel dopoguerra i resti di spinosauro rinvenuti furono molto rari e di fatto di questo animale restava in gran parte misterioso. Questo fino a pochissimo tempo fa, quando è stata annunciata la scoperta di nuovo materiale fossile appartenente a questo dinosauro. L’anteprima europea si è tenuta presso il Museo di Storia Naturale di Milano il 18 settembre 2014 in quanto questo importante lavoro (Ibrahim et al. 2014, pubblicato sulla rivista Science), che ha fatto luce su diversi aspetti prima sconosciuti di questo animale, ha visto una forte partecipazione da parte di un’equipe italiana.
La nostra storia comincia con il rinvenimento nella regione del Kem Kem, in Marocco, di alcune vertebre caratterizzate da processi neurali molto lunghi. La fotografia dei reperti lascia di stucco i paleontologi Cristiano dal Sasso e Simone Maganuco, che capiscono di trovarsi di fronte a qualcosa di eccezionale. I due paleontologi meneghini conoscono bene lo spinosauro in quanto nel Museo Civico di Storia Naturale di Milano è conservato il cranio più grande rinvenuto finora, proveniente dal Marocco. Viene avviata una collaborazione con il collega Nizar Ibrahim di Casablanca, in possesso di altri frammenti dello stesso esemplare e con altri paleontologi americani di Chicago. I finanziamenti della National Geographic Society, ottenuti grazie al coinvolgimento del paleontologo americano Paul Sereno, rendono possibile l’avvio di una cooperazione internazionale tra i paleontologi dei vari paesi, il cui risultato è il lavoro presentato a Milano nei giorni scorsi.
Benché noto alla scienza ormai da un secolo, lo spinosauro è divenuto celebre tra il grande pubblico solo nel 2001 con la pellicola Jurassic Park III, dove sfida e sconfigge il terribile T. rex. Nella realtà tale incontro non sarebbe mai potuto avvenire perché lo spinosauro visse tra i 112 e i 97 milioni di anni fa (Albiano-Cenomaniano, nel periodo Cretaceo), ovvero più di 30 milioni di anni prima del tirannosauro, vissuto tra 68 e 65 milioni di anni fa nel Maastrichtiano. Di sicuro non sarebbe stato capace di spezzare il collo al T. rex come fa nel film, dato che le sue mascelle erano molto strette e con ogni probabilità incapaci di resistere alle forze in gioco, ma c’è del vero nel fatto che lo spinosauro è il più grande dinosauro teropode scoperto finora: il lavoro di Ibrahim e colleghi stima una lunghezza di circa 15 metri e un peso intorno alle 7 tonnellate per il proprietario del rostro marocchino ospitato a Milano, il che lo renderebbe di un paio di metri più lungo del tirannosauro più grande conosciuto, l’esemplare soprannominato Sue. Lo spinosauro reale era però ben diverso da quello cinematografico; come vedremo fra poco, era molto, molto più bizzarro, come neanche lo sceneggiatore più fantasioso sarebbe riuscito a concepire.
Lo spinosauro è classificato all’interno degli Spinosauridae, una famiglia abbastanza primitiva di dinosauri teropodi all’interno dei tetanuri, il gruppo che spazia da Compsognathus (uno dei più piccoli dinosauri conosciuti, uccelli esclusi) al nostro Spinosaurus (il più grande teropode noto). Il genere Spinosaurus era tipicamente africano ma agli spinosauridi appartenevano anche generi provenienti da altre parti del mondo: dal Sudamerica sono noti Irritator e Angaturama, finora rinvenuti solo in Brasile (e che forse erano lo stesso animale), così come Oxalaia; in Europa era presente il genere Baryonyx (che in greco significa “artiglio pesante”), così chiamato per il grande artiglio, lungo una ventina di centimetri, presente sul pollice; dal Niger proviene invece Suchomimus (“simile a un coccodrillo” per via del muso allungato), mentre nel Laos è stato rinvenuto Ichthyovenator. Proprio il confronto con gli altri membri della famiglia, in particolare con Suchomimus del quale è ben nota l’anatomia, ha permesso di delineare in modo più dettagliato l’aspetto dello spinosauro.
Originariamente raffigurato con la testa alta e triangolare come quella del tipico teropode, il rostro del Museo di Milano ha invece dimostrato che la testa dello spinosauro era più simile a quella di un grosso coccodrillo, caratterizzato però dalla presenza di una vela sul dorso. La vera peculiarità di questo dinosauro non erano tuttavia le dimensioni, bensì il grande adattamento a una vita semi-acquatica nei grandi fiumi che ai suoi tempi scorrevano nella regione del Marocco, oggi desertica, da cui provengono i reperti più recenti. Si tratta del primo caso accertato di un dinosauro con queste abitudini, laddove fino ad ora erano considerati animali strettamente terrestri.
Spinosaurus aveva un cranio lungo fino a 1,7 m, caratterizzato da un muso allungato e sottile che si allarga nella parte terminale dove sono presenti numerosi forami. La scansione TAC del muso è stata affidata alle sapienti mani del paleontologo romano Dawid Iurino, che ha pazientemente seguito la diramazione di tutti i nervi cranici convalidando l’ipotesi secondo cui i forami ospitavano un organo di senso meccanocettore che permetteva di percepire le variazioni di pressione nell’acqua; grazie a questo complesso organo di senso lo spinosauro era in grado di cacciare anche di notte o in acque torbide, avvertendo la presenza delle prede in base ai loro movimenti e allo spostamento dell’acqua che questi producevano. Strutture simili sono note nei coccodrilli e sono state osservate anche nei rettili marini del gruppo dei pliosauri; nello spinosauro erano però talmente specializzate che le terminazioni nervose a cui erano collegate, a loro volta unite al nervo trigemino, non innervavano anche i denti come avviene negli altri casi ed erano esclusivamente deputate alla funzione di rilevamento.
Sempre a livello del cranio i numerosi denti conici e distanziati fra loro erano un ulteriore adattamento per catturare i pesci; a differenza dei denti seghettati e compressi lateralmente presenti nella maggior parte degli altri teropodi, atti a tagliare e tranciare, quelli dello spinosauro dovevano afferrare e trattenere prede scivolose e quindi dovevano agire più come delle ganasce che come dei coltelli. Anche le narici si differenziavano nettamente, aprendosi in posizione arretrata sul muso per limitare l’ingresso di acqua nelle vie respiratorie.
Riguardo alla colonna vertebrale si nota che i centri delle vertebre cervicali e dorsali sono più lunghi rispetto a quelli delle vertebre sacrali, allungando di conseguenza il collo e il tronco; fanno eccezione i centri delle vertebre dorsali in posizione più prossimale (alla base del collo, in sostanza), che al contrario sono proporzionalmente più corti e larghi creando così un’articolazione che facilita il movimento del collo. Vertebre di questo tipo erano già note ed erano state attribuite a Sigilmassasaurus, del quale curiosamente si trovavano solo vertebre della base del collo e nient’altro; le recenti scoperte hanno dimostrato che in realtà il resto del corpo esisteva eccome, ed era lo spinosauro! Da qui la decisione di riassegnare quelle ossa a Spinosaurus colmando ulteriori parti mancanti del mosaico.
Arriviamo infine alla coda, i cui due terzi più distali hanno vertebre con centri corti e archi neurali ridotti, un adattamento simile a quello dei pesci che migliora il movimento laterale della coda ai fini della propulsione.
Uno dei caratteri che contraddistinguono a prima vista Spinosaurus è senza ombra di dubbio la grande vela sul dorso. Le vertebre dorsali dello spinosauro hanno dei processi neurali molto lunghi, fino a due metri, che formavano la vela che ha valso all’animale il suo nome (letteralmente “lucertola spinosa dell’Egitto”). I paleontologi si sono interrogati a lungo sulla funzione della vela e le ipotesi più accreditate erano due: una funzione di termoregolazione oppure come segnale per comunicare con altri individui della stessa specie. La nuova ricerca chiarisce anche questa questione, svelando che le vertebre avevano una struttura massiccia e compatta, priva della vascolarizzazione superficiale necessaria a una funzione termoregolatrice, ed erano quindi poco adatte a scambi di calore. Acquista perciò maggior valore la funzione di riconoscimento (o anche – perché no? – di avvertimento, del tipo “io sono qui, sono lungo quindici metri e questo è il mio territorio, entrate a vostro rischio e pericolo”); qualcuno ha persino suggerito che potesse essere una sorta di deriva al contrario, che serviva a evitare che lo spinosauro si ribaltasse mentre nuotava. Il dibattito, insomma, è ancora decisamente aperto.
Un’altra prova dell’adattamento alla vita nell’acqua è rappresentato dalle modifiche al cinto pelvico e agli arti posteriori. Le ossa degli arti, come le costole, erano molto compatte e pesanti, in controtendenza con le estese cavità che si osservano in altri teropodi, uccelli in primis. L’assenza, o comunque la forte riduzione, delle cavità midollari è una condizione tipica dei vertebrati fortemente specializzati per una vita acquatica, come i pinguini o le balene: le ossa pesanti infatti favoriscono le immersioni e stabilizzano il corpo sott’acqua, appesantendolo e contrastando la spinta verso l’alto causata dai polmoni pieni d’aria; gli autori, in effetti, paragonano il grado di adattamento dello spinosauro a quello degli archeoceti, cetacei arcaici già adatti alla vita acquatica ma ancora in grado di muoversi sulla terraferma.
Dal punto di vista morfologico le zampe posteriori sono caratterizzate da quattro dita funzionali con artigli larghi e piatti, in cui anche il primo dito contribuiva al movimento (negli altri teropodi era in genere ridotto e non toccava terra), e probabilmente erano anche palmate in modo da coadiuvare il nuoto. Si può anche notare un’ampia superficie di inserzione dei muscoli caudofemorali, sia sull’ileo sia sul quarto trocantere del femore, a indicare muscoli che consentivano una potente flessione della gamba, e quindi un più energico movimento della stessa nel darsi la spinta durante il nuoto. Lo stesso femore è più corto della tibia di modo da rendere tale movimento più efficiente.
Si pensa che lo spinosauro nuotasse spingendo alternativamente con le gambe come alcuni uccelli acquatici odierni, e che la coda offrisse supporto al nuoto ondeggiando come quella dei coccodrilli. Lo scheletro ricostruito virtualmente ha evidenziato il baricentro molto spostato in avanti, con le zampe posteriori molto più corte e quelle anteriori molto più lunghe rispetto agli altri teropodi; da ciò sembra difficile che lo spinosauro potesse mantenere una postura bipede fuori dall’acqua, poiché si sarebbe sbilanciato in avanti. Si ritiene quindi che sulla terraferma la sua andatura fosse quasi da quadrupede, con le braccia che fungevano da occasionale puntello per darsi la spinta senza però sorreggere stabilmente il corpo. Il suo modo di camminare doveva essere dissimile da quello della maggior parte degli animali di oggi, e comunque sono in corso studi biomeccanici volti a far luce su questa questione ancora tutta da chiarire.
L’habitat dello spinosauro era una vasta rete di corsi d’acqua, caratterizzati dall’abbondanza di pesci e da un’apparente scarsità di erbivori. Si conosce una sessantina di specie vissute in quell’ambiente; tra i teropodi vi sono Carcharodontosaurus, grossomodo della stessa taglia dello spinosauro ma più vicino al tirannosauro come ruolo ecologico, il più piccolo Rugops e Bahariasaurus (e Deltadromeus, forse suo sinonimo), dotato di corpo snello e lunghe gambe; tra i dinosauri erbivori ricordiamo il sauropode Rebbachisaurus; c’erano anche pterosauri e varie specie di coccodrilli, tra cui Laganosuchus dal peculiare muso piatto, mentre tra i pesci (e quindi le potenziali prede dello spinosauro) sono annoverati il celacanto Mawsonia, lungo 4 metri, il pesce sega Onchopristis, che poteva arrivare anche a 6-7 metri, e il pesce polmonato Ceratodus. Si pensa che lo spinosauro cacciasse questi pesci afferrandoli con le mascelle e trascinandoli a riva, dove li tratteneva coi denti e nel contempo li faceva a pezzi con gli artigli delle mani, affilati e compressi lateralmente per fendere meglio la carne.
In generale si può dire che quello dello spinosauro era un adattamento estremo, intimamente legato alle specifiche condizioni ambientali in cui questo dinosauro si è evoluto. Un adattamento così spinto fu però anche la sua condanna, poiché quando un innalzamento del livello dei mari (ciò che si definisce una trasgressione marina) ha cancellato il sistema fluviale in cui viveva non è stato in grado di adattarsi alle nuove condizioni ambientali e si è estinto.
Quale che sia stato il suo destino, lo spinosauro è la dimostrazione che i dinosauri erano (e sono ancor oggi) creature straordinarie, capaci di adattarsi e assumere forme incredibili, talvolta persino oltre la nostra immaginazione. Gli autori dell’articolo hanno dichiarato di essere al lavoro sulla monografia dettagliata dello spinosauro; possiamo dunque stare certi che questo animale non ha ancora finito di sorprenderci.
Bibliografia:
Stromer, E., Wirbeltier-Reste der baharije-Stufe (unterstes Cenoman).3 Das Original des Theropoden Spinosaurus aegyptiacus nov. gen. et nov. spec in Abhandlungen der Königlich Bayerischen Akademie der Wissenschaften Mathematisch-physikalische Klasse Abhandlung, vol. 28, 1915, pp. 1-32.
Ibrahim N., Sereno P.C., Dal Sasso C., Maganuco S., Fabbri M., Martill D.M., Zouhri S., Myhrvold N., Iurino D. (2014) Semiacquatic adaptations in a giant predatory dinosaur. Science. DOI: 10.1126/science.1258750
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