Daniele Tona – 17 ottobre 2016
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Quando si menziona la parola “dinosauro” la rappresentazione che l’immaginario popolare associa ad essa è quasi sempre una fra due opzioni: la prima è Tyrannosaurus rex, più o meno paleontologicamente accurato a seconda di quanto si è documentato colui che visualizza l’animale; la seconda è quella di un rettile immenso, con il corpo massiccio di un elefante sorretto da zampe colonnari, un collo di lunghezza impossibile sormontato da una testolina apparentemente troppo piccola per governare un corpo di siffatta mole, e infine una coda altrettanto se non più lunga che in base alla correttezza della raffigurazione può essere trascinata come un immane peso morto oppure sventolata come una smisurata frusta.
Quest’ultima rappresentazione descrive più o meno sommariamente la quasi totalità delle specie appartenenti a uno dei principali gruppi di dinosauri: parliamo ovviamente dei sauropodi, parenti stretti dei teropodi all’interno dei dinosauri saurischi che tuttavia non potrebbero essere più diversi dai loro cugini bipedi e (quasi tutti) carnivori.
Nel corso dell’era Mesozoica i sauropodi sono stati una componente significativa degli ecosistemi, diffondendosi in tutto il globo fino al loro apogeo alla fine del Giurassico; nel Cretaceo scomparvero in Asia e in Nordamerica, là dove furono soppiantati dagli ornitischi, ma nel resto del mondo rimasero i vegetariani più importanti sino alla fine del Mesozoico. Inoltre i sauropodi sono uno dei gruppi più longevi di dinosauri: le forme più antiche risalgono al Triassico Superiore, come Melanorosaurus del Norico, e se ci si allarga al più ampio gruppo dei sauropodomorfi – comprendente anche specie un tempo riunite nel gruppo a parte dei “prosauropodi” che oggi si pensa fossero una serie di forme di intermedie sulla strada verso i sauropodi in senso stretto – le loro radici affondano addirittura nel Carnico, circa 230 milioni di anni fa.
Eppure, benché i sauropodi siano stati studiati in dettaglio fin dagli albori della paleontologia dei dinosauri, ogni anno le nuove scoperte su questi animali non mancano, e talvolta giungono da luoghi e fonti impensate. In questo articolo vogliamo soffermarci in particolare su due di esse, entrambe molto recenti, che hanno riportato in vita animali considerati estinti da tempo immemore in modi diversi ma ugualmente sorprendenti.
La prima ricerca che andiamo a vedere, seppur solo brevemente poiché si tratta di un lavoro immenso, è il lavoro di Emanuel Tschopp, Octavio Máteus e Roger B.J. Benson del 2015, pubblicato su PeerJ. Lo menzionai già in passato su Scienza Facile, quando proprio Emanuel Tschopp lo illustrò ai Paleodays del 2015 a Palermo, promettendo di parlarne in seguito; purtroppo vari impegni ne hanno portato la disamina su questoblog alle proverbiali calende greche, ma ora possiamo finalmente vedere in cosa consiste questo studio che per mole è secondo solo agli animali che esamina.
Tschopp e colleghi sono andati a indagare uno dei principali gruppi all’interno dei sauropodi, il clade Diplodocidae. Attualmente si riconoscono tra le 12 e le 15 specie di diplodocidi, tra le quali vi sono dinosauri famosi e iconici quali Apatosaurus e l’eponimo Diplodocus; la loro massima diversità fu raggiunta nel Giurassico Superiore quando erano presenti in Nordamerica, Tanzania, Zimbabwe, Portogallo, Spagna e forse anche in Inghilterra e Georgia, ma a differenza di altri gruppi di sauropodi i diplodocidi entrarono apparentemente in declino nel Cretaceo Inferiore, con Leinkupal dal Sudamerica come unico membro del gruppo databile al Cretaceo.
Lo scopo dello studio è di stabilire le relazioni filogenetiche, fino ad ora non del tutto chiarite, tra le varie specie di diplodocidi. Per farlo Tschopp e colleghi hanno esaminato e confrontato i caratteri degli esemplari conservati nei musei, prendendone in esame 81 che sono diventati ciò che in cladistica si definisce operational taxonomic unit o OTU: 49 di esse appartengono a Diplodocidae e comprendono tutti gli olotipi (cioè gli esemplari sui quali si basa la descrizione formale di una specie) sinora ascritti al gruppo oltre a vari esemplari ragionevolmente completi e articolati che hanno fornito ulteriori dati nel caso in cui gli olotipi fossero frammentari o mal conservati, specialmente a livello del cranio; in aggiunta ad essi sono stati esaminati dei taxa non inclusi nei diplodocidi come termini di confronto.
Per ciascuno di questi esemplari si è osservato quali fossero presenti tra i 477 caratteri delle varie parti dello scheletro presi in considerazione; tali caratteri sono stati misurati direttamente sui fossili stessi laddove possibile, altrimenti sono stati ricavati dalle descrizioni pubblicate in letteratura oppure da fotografie ad alta definizione. Partendo dai dati ottenuti dall’esame degli esemplari è stata quindi eseguita l’analisi filogenetica elaborando tali dati grazie ad un software apposito chiamato TNT. Non scendiamo nel dettaglio per spiegare tutto il processo perché non basterebbero venti pagine, ma basta sapere che, oltre ai dati ricavati dalla misurazione dei caratteri, si è tenuto conto di numerose variabili che hanno influito sulla morfologia degli elementi scheletrici esaminati, come ad esempio lo stadio di crescita dell’esemplare, la deformazione dei fossili o la presenza di tratti morfologici peculiari di un singolo esemplare.
L’elaborazione dei dati ha portato alla creazione di un grafico, detto cladogramma, che rappresenta le relazioni filogenetiche tra i vari taxa esaminati stabilite in base ai caratteri che essi hanno in comune fra loro. Il lavoro di Tschopp et al. ha prodotto quattro cladogrammi diversi a seconda del criterio di analisi dei caratteri; in linea generale, tuttavia, tutti e quattro non si discostano troppo dai modelli ipotizzati in lavori precedenti: ne risulta un clade chiamato Diplodocoidea comprendente i gruppi Rebbachisauridae e Flagellicaudata; questi ultimi sono distinti in Dicraeosauridae e Diplodocidae, i quali a loro volta si dividono in Apatosaurinae e Diplodocinae. A seconda del criterio adottato alcune specie si collocano in una posizione piuttosto che in un’altra, ma lo schema generale rimane sostanzialmente lo stesso.
Il risultato sul quale ci vogliamo soffermare, che è anche quello che ha generato il maggior clamore mediatico tra i non addetti ai lavori, si trova all’interno degli Apatosaurinae, dove i dati evidenziano due raggruppamenti di specie: da una parte abbiamo Apatosaurus ajax e Apatosaurus louisae che risultano più strettamente imparentati tra loro rispetto agli altri tre taxa, ossia Apatosaurus excelsus, Elosaurus parvus e Eobrontosaurus yahnahpin. Gli autori ritengono che questi tre taxa siano abbastanza distinti dalle altre due specie di Apatosaurus da non appartenere al medesimo genere, ma allo stesso tempo non sono abbastanza differenziati fra loro da giustificare tre nomi generici; hanno così deciso di riunirli sotto il medesimo nome generico, e siccome la priorità va a quello istituito per primo hanno “resuscitato” quello dato originariamente ad Apatosaurus excelsus: Brontosaurus.
Quanto proposto da questa ricerca aggiunge un altro tassello a una storia tassonomica già piuttosto intricata qual è quella del brontosauro. Tutto iniziò quando nel 1877 Othniel Charles Marsh descrisse i resti di un enorme animale portato alla luce da rocce della Morrison Formation a Como Bluff nel Wyoming, ai quali diede il nome Apatosaurus ajax. In seguito, nel 1879, Marsh descrisse un secondo scheletro di sauropode a cui assegnò il nome Brontosaurus excelsus. Nel 1903 Elmer Riggs riesaminò i due esemplari in questione e pubblicò una revisione dei rispettivi taxa in cui affermò che le differenze tra Apatosaurus e Brontosaurus erano insufficienti per distinguere i due generi; ne conseguì che, in base alle norme di nomenclatura, il nome corretto da attribuire alla specie excelsus era quello del genere descritto per primo, ossia Apatosaurus. Alle due specie già note A. ajax e A. louisae si aggiunse così Apatosaurus excelsus, che manteneva la sua validità come specie ma perdeva la sua “indipendenza”, per così dire, a livello di genere.
Da quel momento, per la letteratura scientifica il nome Brontosaurus perse di validità, e per oltre un secolo la sua specie fu considerata un’altra specie di apatosauro. Per la cultura popolare, però, il nome rimase valido eccome, e generazioni di paleontologi, esperti o semplici appassionati dovettero sobbarcarsi l’onere di correggere coloro che chiamavano “brontosauro” qualsivoglia generico dinosauro sauropode. A peggiorare le cose ci fu il fatto che lo scheletro dell’olotipo di brontosauro era privo di cranio, così quando fu esposto all’American Museum of Natural History di New York gli venne piazzato un cranio scolpito sulla base di quello di Camarasaurus, un altro sauropode più piccolo e solo lontanamente imparentato; questo cranio aveva una forma più tozza e alta rispetto a quello lungo e stretto che avevano le altre specie di Apatosaurus, il che non fece che aumentare ulteriormente la confusione tra i non addetti ai lavori; solo nel 1978 giunse la conferma che anche il cranio di A. excelsus era allungato, e a quel punto le ricostruzioni furono aggiornate in accordo.
Nel 2015 il cerchio si chiude: Tschopp e colleghi sostengono che alla fine fine A. excelsus è effettivamente abbastanza diverso dalle altre specie di Apatosaurus, e così torna ad essere Brontosaurus; dallo studio emerge anche che il brontosauro è leggermente più antico e compare un po’ più in basso nella stratigrafia della Formazione Morrison rispetto all’apatosauro, rinforzando ulteriormente l’interpretazione di Tschopp et al. – e prima ancora quella originaria di Marsh – dei due generi distinti fra loro. C’è qualcosa di profondamente ironico nel fatto che per oltre un secolo i paleontologi hanno corretto chi usava il nome “brontosauro” solo per scoprire che alla fine non aveva poi così torto, e anche nel fatto che ciò in retrospettiva rende corretto l’uso di quel nome tutte le volte che un autore lo inseriva in un romanzo o in un film, oppure un produttore di giocattoli lo stampava sulla pancia di un modellino di dinosauro dal collo lungo infischiandosene di ogni velleità scientifica.
C’è anche una morale che possiamo trarre da questa vicenda, e che mi ha ispirato a scrivere queste poche righe su una piccola parte di un lavoro molto più ampio ed esaustivo: a prescindere dal nome generico, la specie excelsus è sempre stata valida, e nessuno lo ha mai messo in dubbio; il vero dibattito nasce dal genere al quale ascriverla, e a quel punto si passa dalla certezza dei fatti all’interpretazione dei dati da parte dei vari autori. La proposta di Tschopp et al. di rendere di nuovo valido il nome Brontosaurus è la loro interpretazione dei dati ottenuti studiando i fossili, e infatti non tutti i paleontologi sono concordi e preferiscono mantenere valido solo il nome Apatosaurus. Alla fine tale dibattito è solo una questione di quale etichetta appiccicare a una specie, ma la cosa davvero importante è che il loro studio fornisce dati sui quali chiunque può lavorare e produrre la propria versione dei fatti; la loro interpretazione è testabile ed eventualmente confutabile, e magari tra qualche anno nuove scoperte e nuovi studi la affosseranno e Brontosaurus tornerà nell’oblio dei nomi non più validi; i dati da loro forniti, però, danno a chi dissente da essa i mezzi per argomentare la propria opinione, e ciò rappresenta al meglio un’applicazione di ciò che dovrebbe essere il metodo scientifico.
Il secondo lavoro di cui andiamo a parlare è del gruppo di lavoro composto da Cristiano Dal Sasso, Gustavo Pierangelini, Federico Famiani, Andrea Cau e Umberto Nicosia; lo studio (Dal Sasso et al. 2016) è stato pubblicato su Cretaceous Research e, per riagganciarci a quanto detto in apertura, è sorprendente sia per la sua natura del fossile descritto sia per il luogo da cui è tornato alla luce.
Tutto inizia nel 2008, quando dei lavori di estrazione in località Rocca di Cave, in provincia di Roma, portarono alla luce rocce provenienti da un affioramento di calcari del Cretaceo; queste rocce contenevano dei fossili che nel 2012 sono stati portati all’attenzione di esperti che li hanno identificati come resti di un sauropode.
A sorprendere è in particolare la roccia che conteneva i resti: nell’area di Rocca di Cave, che si trova nella parte meridionale dei Monti Prenestini, affiorano infatti calcari marini databili all’Aptiano-Senoniano, quindi attorno a 100 milioni di anni fa a metà del periodo Cretaceo; questi calcari appartengono alla cosiddetta Piattaforma Carbonatica Appenninica o Piattaforma Laziale-Abruzzese-Campana, che si è depositata a partire dal Cretaceo fino al Miocene.
Molti degli affioramenti di età cretacea della suddetta piattaforma hanno un’estensione limitata e sono spesso fortemente disturbati dalla tettonica, e la sezione da cui provengono i fossili, posta dove anticamente si trovava il margine occidentale della piattaforma, non fa eccezione; si tratta di una successione sedimentaria spessa poco più di due metri data da calcari più grossolani cui si intercalano livelli più fini a ooliti, e dove si osservano accumuli localizzati di rudiste e milioline oltre a tracce di esposizione subaerea; questa successione rappresenterebbe una facies di laguna con depositi a grana fine ma ricchi in bioclasti ubicati in un contesto di piattaforma interna. Il calcare che ingloba i fossili di dinosauro si caratterizza per l’abbondanza di frammenti di bivalvi, gasteropodi, echinoidi e più rari brachiopodi e coralli, organizzati in livelli bioclastici con orientazione preferenziale dei frammenti; è stato attribuito alla cosiddetta unità dei “Calcari a ostracodi e gasteropodi”, datata tra la fine dell’Aptiano e l’inizio dell’Albiano (circa 113 milioni di anni fa). Abbiamo quindi i resti di un sauropode finiti in un’antica laguna ai margini di una piattaforma carbonatica parzialmente emersa, abbastanza estesa da permettere se non la sussistenza almeno il transito di animali di terraferma quali i dinosauri.
Il materiale rinvenuto consiste di tre elementi disarticolati tuttora conservati presso il Museo di Storia Naturale di Milano: si tratta di una vertebra e di due frammenti ossei, tutti immersi nella stessa matrice e quindi ragionevolmente appartenenti al medesimo animale. La vertebra è isolata e non mostra tracce di connessione con altre vertebre andate perdute; gli altri elementi si sono frammentati prima della diagenesi e indicano di aver subito trasporto su un substrato sciolto prima del seppellimento definitivo e della cementazione della matrice sedimentaria.
E’ soprattutto la vertebra a permettere l’identificazione dell’animale a cui è appartenuta: dall’esame dei suoi caratteri gli autori attribuiscono la vertebra a un sauropode del gruppo dei titanosauriformi, un gruppo di sauropodi di grande successo che annovera più di 90 specie distribuite su tutto il globo e vissute tra il Giurassico Medio e il Cretaceo Superiore. Ciò lo pone quindi sull’altro ramo dei sauropodi rispetto ai diplodocidi che abbiamo visto prima, più vicino a Brachiosaurus, Camarasaurus e soprattutto forme più derivate comeSaltasaurus. Alcuni caratteri in particolare, tra cui i processi trasversi e le superfici di articolazione con gli archi emali, collocano la vertebra in posizione distale tra le caudali anteriori, probabilmente tra il quinto e l’ottavo elemento della serie. Dal confronto con elementi omologhi delle stesse dimensioni facenti parte di scheletri più completi di titanosauri è stato anche possibile stimare per l’animale una lunghezza di circa 6 metri.
Gli altri due elementi ossei sono troppo frammentari e danneggiati per poterne stabilire la forma esatta, ma quello più sottile è probabilmente la porzione laminare di un elemento del cinto, forse parte della scapola, oppure si colloca lungo la parte stretta e allungata dell’ischio o del pube. L’altro frammento, più grande, probabilmente appartiene all’estremità prossimale di un elemento del cinto pelvico.
Gli autori hanno eseguito un’analisi filogenetica, anche qui con il software TNT, esaminando i caratteri della vertebra di modo da trovare le affinità dell’esemplare con altri titanosauriformi e quindi la sua posizione all’interno del gruppo. Sono stati applicati vari criteri di analisi dei caratteri, e i vari risultati ottenuti concordano nell’associare il titanosauro italiano a Malawisaurus, Mongolosaurus e Rapetosaurus, riunendoli in un clade affine a Saltasauridae all’interno del gruppo di titanosauri chiamato Lithostrotia. Data la scarsità di resti, tuttavia, gli autori si sono astenuti dal voler assegnare un nome al dinosauro, limitandosi a definirlo un titanosauro indeterminato.
E’ stata condotta anche un’analisi di tipo paleobiogeografico volta a stimare l’area di provenienza del probabile antenato comune dei taxa del clade a cui appartiene il titanosauro italiano. Va detto che i modelli ottenuti non sono precisi al 100% per via delle molte incognite legate soprattutto alla differenza tra le epoche di vita e le zone geografiche in cui i taxa sono vissuti; ciò nondimeno si delineano due ipotesi principali che vedono il taxon italiano giungere dall’Africa per insediarsi in Italia oppure far parte di un più ampio interscambio di faune che si spostavano tra Asia e Africa attraverso l’Europa. In ogni caso, la presenza di un titanosauro di età aptiano-albiana che mostra legami con forme africane ed asiatiche è compatibile con l’incremento nella diversità e della diffusione dei titanosauriformi che si osserva nel corso del Cretaceo Inferiore tra Barremiano a Albiano.
Nel loro studio Cristiano Dal Sasso e i suoi coautori sottolineano altri importanti aspetti paleobiogeografici legati al dinosauro di Rocca delle Cave: innanzitutto è il primo sauropode italiano del quale si abbiano resti ossei; è inoltre il più antico titanosauro rinvenuto in Europa meridionale, e insieme a Normanniasaurus é uno di due soli taxa del Cretaceo Inferiore attribuibile con certezza ai titanosauri. In un quadro più ampio, esso rafforza l’ipotesi di un ponte di terra che a quell’epoca collegava Africa ed Europa permettendo lo spostamento delle faune terrestri. Sono stati proposti vari modelli per spiegare l’estensione e l’ubicazione di questi ponti di terra, e il titanosauro italiano offre sostegno al cosiddetto modello di Adria, secondo il quale le faune africane si sarebbero disperse in Europa durante le fasi di emersione di un sistema di piattaforme carbonatiche che si estendevano dall’odierna Tunisia al Friuli; il titanosauro di Rocca delle Cave è solo l’ultimo di una serie di ritrovamenti significativi che corroborano questo modello: anche il celebre Scipionyx proviene da rocce carbonatiche di piattaforma, così come i resti di vertebrati terrestri dell’area friulana (primo fra tutti l’ornitopode Tethyshadros) e le orme rinvenute in vari siti della Puglia; pur non essendo fossili di organismi, le bauxiti del centro e sud Italia spesso rappresentano evidenze di paleosuoli e quindi di esposizione in ambiente subaereo di queste piattaforme carbonatiche del Cretaceo.
Cosa c’è di tanto sorprendente nel lavoro di Dal Sasso e colleghi, mi si chiederà. La risposta sta nel fatto che i ritrovamenti di dinosauri su suolo italiano sono ormai talmente tanti e talmente distribuiti nello spazio e nel tempo da rendere chiaro che l’Italia mesozoica non era poi così povera di dinosauri come si pensava fino a poco più di vent’anni fa. Certo, difficilmente il nostro paese conserverà nel sottosuolo un tesoro di ossa paragonabile a luoghi come il Nordamerica o la Mongolia, ma a questo punto è ragionevole pensare che i dinosauri italiani ci siano eccome, siano più grandi di quel che si pensava (il titanosauro era lungo 6 metri, il “saltriosauro” lombardo parrebbe essere ancora più grande, e nemmeno quelli che hanno lasciato le impronte in Puglia dovevano essere bruscolini!) e aspettino solo di essere trovati. Come fare a trovarli? Come sempre quando si tratta di fossili è tutta una questione di trovare il posto giusto e avere una buona dose di fortuna!
Si ringrazia Giuseppe Marramà per avermi fornito il materiale per questo articolo
Bibliografia
- Tschopp et al. (2015), A specimen-level phylogenetic analysis and taxonomic revision of Diplodocidae (Dinosauria, Sauropoda). PeerJ 3:e857; DOI 10.7717/peerj.857
- Sasso, C.D., Pierangelini, G., Famiani, F., Cau, A., Nicosia, U., First sauropod bones from Italy offer new insights on the radiation of Titanosauria between Africa and Europe, Cretaceous Research (2016), doi: 10.1016/j.cretres.2016.03.008.