Daniele Tona – Dicembre 2015
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Come è noto la paleontologia è una scienza in costante cambiamento: nuove scoperte si susseguono ogni anno a un ritmo incessante, e con esse nascono nuove ipotesi e cadono vecchi preconcetti. E’ raro che un’idea in paleontologia rimanga, si passi il gioco di parole, scolpita nella roccia, poiché basta che saltino fuori dei resti meglio conservati di quelli su cui tale idea si basa per sgretolare quello che fino al giorno prima era un dogma incrollabile.
I fossili sono nella maggior parte dei casi incompleti, talvolta consistono solo di un singolo frammento e ricostruire l’aspetto di un organismo estinto è più spesso che no un lavoro di congettura e speculazione tanto più attendibile quanto più completi sono i resti. Quando va bene ci si può basare sui parenti più stretti di quell’organismo, ma in molti casi si può solo azzardare delle ipotesi che ritrovamenti più completi possono in un secondo tempo ribaltare completamente.
Negli ultimi anni la paleontologia dei dinosauri è stata interessata proprio da questo fenomeno che ha rivoluzionato il modo con cui eravamo soliti vedere questi animali. E’ ormai un dato di fatto che gli uccelli sono a tutti effetti gli ultimi dinosauri rimasti, che le piume si siano evolute molto prima del volo e che erano molto più diffuse di quanto ritenga la cultura popolare (sebbene ultimamente anche i non addetti ai lavori comincino a essere consapevoli dello stretto legame tra dinosauri mesozoici e uccelli, e qua e là si scorgono teropodi piumati anche in opere non rivolte agli specialisti); anche noi di Scienza Facile abbiamo parlato del nuovo modo di vedere dinosauri e uccelli in questo articolo, che abbiamo in seguito aggiornato quando nuove scoperte hanno svelato ulteriori aspetti della questione. Ogni anno vengono alla luce nuovi dinosauri coperti di penne, e fra poco vedremo che anche un concetto relativamente recente come quello di “dinosauro piumato” può riservare sorprese inaspettate.
D’altro canto, le nuove scoperte possono riguardare anche animali noti già da molto tempo. Abbiamo già parlato ampiamente di Spinosaurus (qui e qui) e di come un recente studio abbia dato un nuovo aspetto e nuove probabili abitudini a un dinosauro scoperto ormai un secolo addietro. Altri dinosauri sono noti da una manciata di resti, e spesso dare loro un aspetto attendibile può essere molto difficile se non impossibile; si può stabilire a quale gruppo appartenessero, ma un identikit completo finirà sempre per discostarsi almeno in parte dalla realtà. Come vedremo più avanti, a volte può capitare che nuovi ritrovamenti permettano di gettare finalmente luce sulle reali fattezze di questi misteriosi dinosauri, e quello che emerge può essere ben lontano da ciò che per decenni ci siamo aspettati.
Ma andiamo con ordine, e parliamo del primo protagonista della nostra storia. Il lavoro di Xu et al. (2015) descrive un nuovo dinosauro teropode dalla località di Mutoudeng, nella provincia cinese di Hebei. Il dinosauro è stato battezzato Yi qi (pronunciato “ii cii”), che si può tradurre dal cinese mandarino in “ala strana”, in riferimento alla caratteristica più peculiare della sua anatomia.
L’olotipo, cioè l’esemplare su cui è basata la diagnosi del nuovo taxon, è uno scheletro parziale articolato e associato a tracce delle parti molli proveniente da strati della Formazione Tiaojishan; quest’unità si è depositata tra Calloviano e Oxfordiano, al passaggio tra Giurassico Medio e Superiore, quindi in un intervallo di tempo compreso all’incirca tra 164 e 155 milioni di anni fa.
L’olotipo è considerato un adulto per via del fatto che i centri vertebrali sono saldati alle spine neurali, e la massa corporea stimata dagli autori è di circa 380 grammi mentre le sue dimensioni erano grossomodo quelle di un gazza; Yi era quindi un dinosauro davvero piccolo. Il suo cranio è relativamente robusto, con grandi orbite, un muso corto e l’estremità anteriore della mandibola inclinata verso il basso; il premascellare porta quattro denti, dei quali il più anteriore è anche il più grande, mentre altri denti sono visibili sull’osso dentale della mandibola; piccoli e appuntiti, si pensa servissero soprattutto per mangiare insetti.
Passando alle zampe, l’arto anteriore possiede una scapola proporzionalmente corta e un omero lungo e robusto oltre a mostrare un allungamento estremo delle ossa della mano, in particolare del terzo dito in cui sia il metacarpo (l’osso del palmo) sia le falangi sono enormemente allungate, molto più delle ossa del primo e del secondo dito. Il carattere più straordinario di Yi è però senza dubbio la struttura associata a entrambi i polsi; ha la forma di una bacchetta leggermente incurvata che si assottiglia verso la punta, e da sola è più lunga dell’intero avambraccio. L’osservazione a elevato ingrandimento di queste strutture ha mostrato colore e aspetto superficiale simili a quelle delle ossa, un’interpretazione confermata dall’analisi della bacchetta associata al polso destro con spettrometria EDS (Energy Dispersive X-ray Spectrometry), da cui è emersa una composizione compatibile con quella di un osso o di un elemento scheletrico di cartilagine calcificata. Gli autori hanno denominato questa struttura elemento stiliforme; esso non ha pari tra i dinosauri, ma richiama strutture simili di altri tetrapodi, come l’osso pteroide degli pterosauri e l’elemento allungato che si estende dal polso dello scoiattolo volante Petaurista leucogenys.
Oltre all’elemento stiliforme l’altra caratteristica che rende significativo il ritrovamento di Yi è la presenza di parti molli conservate insieme alle ossa. Benché sia solo l’ultimo di una lunga serie di dinosauri piumati, è la combinazione delle parti molli rinvenute a renderlo unico; nello specifico si sono preservati due tipi di strutture tegumentarie: le penne e il tessuto molle membranoso.
Le penne sono sottili, rigide e filamentose. Attorno al cranio si osservano penne lunghe 15-20 mm, altre penne lunghe circa 30 mm crescono attorno al collo mentre penne di 35-60 mm sono attaccate all’arto anteriore e a quello posteriore, giù fino al metatarso (l’osso della pianta del piede) compreso. Le penne sono molto addensate in alcune aree, perciò non è facile capire se fossero o meno ramificate; alcune penne isolate mostrano però filamenti multipli, mentre la maggior parte delle penne sugli arti presenta una morfologia unica definita a pennello, con una struttura singola simile a un calamo e larga circa 1,2 mm che parte dalla base e si estende fino a tre quarti della lunghezza della penna per poi dividersi in numerosi filamenti paralleli più sottili.
Il tessuto molle membranoso è invece osservabile sotto forma di chiazze visibili tra gli elementi stiliformi e le dita di entrambe le mani. Queste chiazze hanno un aspetto laminato e in alcune aree mostrano evidenti striature che sono state interpretate come fibre interne oppure pieghe molto addensate del tessuto. Di certo questo tessuto membranoso non ricorda alcun tipo di tegumento osservato sugli altri teropodi mesozoici provenienti dalla Cina meridionale.
L’osservazione al SEM (microscopio elettronico a scansione) delle tracce di tegumento ha inoltre mostrato delle strutture che sono state interpretate come melanosomi, cioè organelli cellulari responsabili della produzione del pigmento chiamato melanina che conferisce colore alla pelle o, in questo caso, alle penne. Essi variano molto in termini di dimensione (spaziano dai 300 ai 2100 nanometri di lunghezza dell’asse maggiore), forma e densità di distribuzione, e alcuni sono fra i melanosomi più grandi mai osservati su penne fossili o attuali.
L’analisi filogenetica di Yi lo colloca tra i teropodi della famiglia degli Scansoriopterygidae, piccoli dinosauri caratterizzati dal terzo dito molto allungato che oltre a Yi comprendono i generi Epidexipteryx e Scansoriopteryx, vissuti nella sua stessa area ed epoca. Essi si collocano all’interno del gruppo dei Paraves, alla base del clade che comprende da una parte i Deinonychosauria (ossia dromeosauridi e troodontidi) e dall’altra gli uccelli e i loro precursori diretti del gruppo degli Avialae. Nonostante la posizione molto derivata della famiglia, gli scansoriopterigidi sono privi delle penne complesse degli altri Paraves e sono considerati un caso di divergenza morfologica estrema: sebbene braccia munite di penne complesse esistessero già nei teropodi, fino a quel punto nessuno di essi era stato in grado di volare; gli scansoriopterigidi rappresenterebbero quindi una sorta di “esperimento” della natura nelle prime fasi di evoluzione del piano corporeo dei teropodi verso una forma adatta al volo, una possibile soluzione in cui le penne delle braccia sono scomparse e sono state sostituite da una membrana tesa fra il terzo dito della mano allungato all’inverosimile e il corpo; nel caso di Yi tale membrana godeva anche del sostegno offerto dall’elemento stiliforme, mentre negli altri scansoriopterigidi non è stata ancora osservata, sebbene se a questo punto la sua presenza non sia da escludere anche negli altri generi del gruppo. C’è un che di ironico nel fatto che, se confermata, la peculiarità anatomica di Yi gli darebbe a tutti gli effetti l’aspetto di un piccolo drago: in cinese, infatti, “dinosauro” si dice kǒnglóng, che vuol dire “drago terribile”.
A questo punto la domanda sorge spontanea: Yi qi volava? E se sì, come? Gli autori sottolineano che i pochi casi noti di amnioti in possesso di elementi stiliformi usano invariabilmente queste strutture per sostenere membrane aerodinamiche che conferiscono loro la capacità di volare in modo planato o attivo, perciò è ragionevole pensare che l’elemento stiliforme di Yi avesse la stessa funzione. Tuttavia, l’unico esemplare finora rinvenuto è incompleto e perciò non è facile ricostruire con accuratezza l’orientazione dell’elemento stiliforme rispetto al polso e quindi la forma della membrana. La mancanza di estese superfici di inserzione dei muscoli e la possibilità che l’elemento stiliforme rigido e lungo interferisse con il movimento oscillatorio e rotatorio che il braccio avrebbe descritto durante un volo attivo lascia inoltre pensare che, se effettivamente Yi fosse stato in grado di volare, avrebbe fatto affidamento sopratutto al volo planato.
In ogni caso, sostengono gli autori e concorda il sottoscritto, se anche Yi non fosse stato un volatore avrebbe comunque rappresentato un caso unico fra i dinosauri di convergenza evolutiva con le ali di altri vertebrati volatori come pipistrelli e pterosauri. Di certo costituisce un esempio della varietà di morfologie sperimentate dall’evoluzione all’alba del cammino e poi del decollo dei dinosauri verso la loro ultima frontiera: il cielo.
L’altro protagonista di questo articolo è Deinocheirus mirificus, da sempre uno dei grandi enigmi della paleontologia dei dinosauri sin dalla sua scoperta nel 1965, nel corso della spedizione congiunta polacco-mongola condotta nel sito di Altan Uul III, nel deserto del Gobi meridionale. Sin da allora tutti i libri sui dinosauri riportarono l’immagine di due spaventose braccia lunghe due metri e mezzo, ciascuna munita di tre lunghe dita terminanti in acuminati artigli. Invero, il poco materiale fossile a disposizione è stato comunque sufficiente da permettere ai paleontologi di inserire Deinocheirus all’interno del gruppo degli Ornithomimosauria, ossia i teropodi che, per aspetto e probabili abitudini, ricordavano gli struzzi odierni (e di recente si è scoperto che erano anche coperti di piume come gli struzzi; ne abbiamo parlato anche noi di Scienza Facile in questo articolo[2]). A parte questo, però, l’effettivo aspetto di questo animale è rimasto un mistero per molto tempo, ad eccezione di un solo dettaglio: era un essere enorme.
Il velo di mistero che circondava Deinocheirus si è infine sollevato negli ultimi anni grazie ad alcuni ritrovamenti straordinari descritti dal lavoro di Lee et al. (2014) pubblicato su Nature. Due nuovi esemplari hanno infatti restituito abbastanza materiale scheletrico da poter ricostruire l’anatomia di Deinocheirus quasi nella sua interezza. Paradossalmente, e non senza una certa ironia, uno dei dinosauri più misteriosi per antonomasia è diventato uno di quelli meglio conosciuti.
Ma vediamo più in dettaglio quali scoperte riportano Lee e colleghi. I due nuovi esemplari sono stati trovati rispettivamente nel sito di Altan Uul IV nel 2006 e in quello di Bugiin Tsav nel 2009; provengono da due località diverse della stessa unità, la Nemegt Formation da cui proviene anche l’olotipo, datata tra Campaniano Superiore e Maastrichtiano Inferiore e risalente quindi a circa 72 milioni di anni fa. Come detto si tratta di due esemplari il cui stato di conservazione ha permesso di ricostruire quasi totalmente l’anatomia di Deinocheirus: il più grande dei due consiste di uno scheletro quasi completo a eccezione di parte delle vertebre dorsali, ed è grazie al suo arto anteriore che è stato possibile identificarlo come un Deinocheirus peraltro leggermente più grande dell’olotipo. Il secondo esemplare è un po’ più piccolo, con una taglia pari al 74% del primo, e consiste in una serie vertebrale che va dal dorso fin quasi alla punta della coda e di un cinto pelvico comprensivo di una zampa posteriore grazie alla quale è stato possibile il confronto col primo esemplare e di conseguenza l’attribuzione anche di questo esemplare a Deinocheirus. Siamo quindi di fronte a un caso tanto raro quanto fortunato in cui tre esemplari sono composti da parti diverse dello scheletro, ma posseggono alcuni elementi combacianti che possono essere confrontati per poter in primo luogo identificare gli esemplari e in seconda istanza ottenere una ricostruzione completa combinando fra loro le varie parti.
Quindi, dopo mezzo secolo in cui è stato raffiguranti unicamente come un paio di braccia fluttuanti, che cosa sappiamo dell’anatomia di Deinocheirus?
Partiamo dal cranio lungo poco più di un metro, con una scatola cranica bassa e stretta e una regione antorbitale (la parte del cranio davanti alle orbite) allungata come negli altri ornitomimosauri, ma in proporzione più lunga rispetto agli altri esponenti del gruppo. Le narici esterne si aprono verso l’alto, mentre il diametro esterno dell’anello sclerotico (un anello di piccole ossa che circondano il bulbo oculare mantenendone la forma sferica) indica che gli occhi erano piccoli in proporzione al resto del cranio e quindi Deinocheirus era probabilmente un animale diurno.
La bocca ha un profilo inclinato verso il basso, con la mandibola che in vista laterale è più alta della mascella. Premascellari e dentali (le ossa sulla punta, rispettivamente, di mascella e mandibola) si espandono lateralmente formando un becco a spatola la cui superficie è incisa da fori che indicano che in vita era presente una ranfoteca cheratinosa, ossia una guaina coriacea come sul becco degli uccelli. Aveva quindi una sorta di becco d’anatra evoluto in modo indipendente e convergente con gli adrosauri.
Passiamo alla colonna vertebrale, dove contiamo 10 vertebre cervicali basse e lunghe i cui centri vertebrali assumono un profilo via via più trapezoidale man mano che si procede in direzione posteriore; ciò conferisce al collo la forma di una S molto marcata per sostenere meglio la lunga testa. Le vertebre dorsali sono 12 e mostrano un allungamento progressivo delle spine neurali, la più grande delle quali misura ben 8,5 volte l’altezza del suo centro vertebrale; si ritiene che queste spine allungate agissero da punto di inserzione per un intricato sistema di legamenti interspinali che fungevano da tiranti con lo scopo di sostenere l’addome, in congiunzione con le pelvi e gli arti posteriori che lo reggevano dal basso. Anche le 6 vertebre sacrali presentano spine neurali allungate, che ad eccezione della prima sono fuse insieme in una piastra ossea. La lunghezza delle spine diminuisce proseguendo verso la coda, dove le vertebre caudali sono nettamente più basse e si caratterizzano altresì per delle rugosità delle loro superfici anteriore e posteriore su cui si ancoravano i legamenti. La punta della coda, infine, mostra la fusione di almeno due vertebre in un pigostilo, il che lascia supporre la presenza in vita di un ventaglio di penne simile a quello osservato in altri gruppi di teropodi come oviraptorosauri e terizinosauri.
In tutte le vertebre a eccezione dell’atlante alla base del cranio e del pigostilo alla fine della coda si osservano inoltre fosse e lamine indicative della presenza di cavità interne, comparabili per estensione a quelle dei sauropodi; esse alleggerivano di molto il peso delle vertebre senza variarne il volume, rendendo in definitiva l’animale molto più leggero nonostante le sue dimensioni considerevoli. Cavità pneumatiche attraversano anche le aree del bacino adiacenti alle vertebre sacrali.
Gli arti anteriori di Deinocheirus erano già noti grazie all’olotipo, ma i nuovi esemplari hanno mostrato una caratteristica sino ad ora sconosciuta che viene tra l’altro osservata per la prima volta entro gli ornitomimosauri: una furcula a U data dalla fusione delle clavicole del cinto pettorale. Gli arti posteriori, dal canto loro, sono ben diversi da quelli lunghi, snelli e adatti alla corsa dei suoi parenti stretti: l’ilio mostra ipertrofia di alcune sue parti, che risultano cioè enormemente ingrandite e rinforzate per sostenere il grande peso dell’animale, ed era inoltre orientato con una marcata inclinazione postero-ventrale. Il femore è più lungo della tibia, un carattere tipico di un animale inadatto alla corsa, e presenta peculiari tubercoli e processi uncinati mai osservati prima in nessun altro dinosauro, ma che certamente servivano all’inserzione dei muscoli delle gambe e dei legamenti. Il piede è corto e le falangi ungueali terminano in un’estremità squadrata anziché restringersi a punta come in tutti gli altri teropodi.
Oltre a dare un quadro più chiaro dell’anatomia di Deinocheirus, i nuovi resti permettono anche di collocarlo con più precisione all’interno degli Ornithomimosauria. Dalle analisi filogenetiche questo dinosauro risulta membro della famiglia Deinocheiridae insieme a Garudimimus e al più basale Beishanlong. I deinocheiridi condividono un antenato comune con la famiglia Ornithomimidae, dalla quale si sono separati nel Cretaceo Inferiore seguendo un differente percorso evolutivo che non era basato sulla corsa e sulla velocità; tale percorso ha però condotto al gigantismo osservato in Deinocheirus, che con una stima di 11 metri di lunghezza per circa 6 tonnellate di peso è il più grande ornitomimosauro e uno dei più grandi teropodi conosciuti.
La completezza dei resti ha permesso anche di fare ipotesi sul ruolo ecologico di Deinocheirus. Il cranio, ad esempio, presenta una superficie ridotta per l’inserzione dei muscoli adduttori della mandibola, perciò il suo morso era debole. L’assenza dei denti, la ranfoteca che ricopriva la punta del muso e la mandibola dal profilo dorsale convesso e inclinato verso il basso sono tra i celurosauri caratteri tipici di una dieta erbivora; la mandibola molto alta creava inoltre lo spazio per una lingua muscolosa in grado di manipolare il cibo raccolto con il becco.
Ma cosa mangiava di preciso Deinocheirus? Tutto lascia supporre che fosse un vegetariano, ma un morso debole come il suo era idoneo a mordere e strappare solo la vegetazione più tenera come ramoscelli o piante acquatiche. Tra le costole di uno degli esemplari sono stati trovati circa 1400 gastroliti di dimensione variabile tra 8 e 87 millimetri, il che fa pensare che ingerisse dei sassi che svolgevano il lavoro di triturare il cibo al posto delle mascelle sdentate; tuttavia, insieme ai gastroliti sono state trovate anche scaglie e vertebre di pesci, perciò è possibile che fosse non tanto un erbivoro obbligato quanto un onnivoro. Tutti questi elementi tratteggiano Deinocheirus come un brucatore non selettivo alla stregua di adrosauri o sauropodi, che probabilmente viveva nei pressi di corsi d’acqua nutrendosi sia della vegetazione a terra sia di quella acquatica, forse integrando la dieta con pesci e altri piccoli animali. Le lunghe braccia coi loro robusti artigli avrebbero potuto servire per dissotterrare o raccogliere le piante, laddove i piedi larghi con unghie tozze avrebbero impedito che rimanesse impantanato nei terreni fangosi che caratterizzavano i sistemi fluviali meandriformi che sarebbero diventati la Formazione Nemegt.
Le pelvi massicce di Deinocheirus, con gambe corte più adatte a reggere mezza dozzina di tonnellate che a correre a tutta velocità facevano di lui un animale lento e probabilmente ponderoso nel suo incedere tra la vegetazione. La sua arma per proteggersi da predatori come il possente Tarbosaurus era quindi il gigantismo, grazie al quale rinunciava alle attitudini da corridori dei suoi cugini di taglia medio-piccola a favore di una stazza talmente imponente da renderlo inattaccabile da tutti tranne che dai predatori più affamati; chissà, forse quelle braccia potevano sferrare violente artigliate, noi non potremo mai saperlo con sicurezza ma di certo dovevano incutere agli altri dinosauri lo stesso timore reverenziale che suscitano negli umani.
In effetti, molte delle peculiarità anatomiche di Deinocheirus sembrano una conseguenza ancor più che una causa del suo gigantismo: fra esse spiccano senz’altro l’allungamento delle spine neurali per rafforzare i legamenti e i muscoli della schiena e i piedi larghi e piatti. Altri caratteri, come la furcula o il pigostilo, non sono novità di per sé visto che sono noti già da tempo in altri gruppi di teropodi; vengono però osservati per la prima volta tra gli ornitomimosauri, alcuni dei quali sono ben conosciuti in termini di anatomia dello scheletro.
C’è una lezione in tutto questo, e gli autori dello studio non mancano di farlo notare: Deinocheirus era una bestia bizzarra e insolita, e questo lo si era già capito da quelle braccia mostruose che costituiscono il suo olotipo; esse non rendevano però idea di quanto fosse realmente bizzarro, e questo dimostra come non sempre sia saggio cercare di ricostruire l’aspetto di un animale partendo da una manciata di resti parziali, anche quando i loro parenti e l’anatomia di questi ultimi sono ben conosciuti e studiati.
Un sentito ringraziamento a Marco Castiello, Lorenzo De Bortoli e Carla Buosi per avermi fornito la letteratura per l’articolo.
Bibliografia
Xu, X.; Zheng, X.; Sullivan, C.; Wang, X.; Xing, L.; Wang, Y.; Zhang, X.; o’Connor, J. K.; Zhang, F.; Pan, Y. (2015). “A bizarre Jurassic maniraptoran theropod with preserved evidence of membranous wings”. Nature. doi:10.1038/nature14423
Lee, Y.N.; Barsbold, R.; Currie, P.J.; Kobayashi, Y.; Lee, H.J.; Godefroit, P.; Escuillié, F.O.; Chinzorig, T. (2014). “Resolving the long-standing enigmas of a giant ornithomimosaur Deinocheirus mirificus”. Nature 515 (7526): 257–260. doi:10.1038/nature13874