Daniele Tona 7 giugno 2013
Nei giorni 23, 24 e 25 maggio 2013 si è tenuto l’annuale appuntamento con le Giornate di Paleontologia, il congresso della Società Paleontologica Italiana giunto alla sua tredicesima edizione. Quest’anno il simposio è stato organizzato dall’Università di Perugia, che ha ospitato i lavori all’interno del Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria situato nel chiostro dell’adiacente Basilica di San Domenico, in pieno centro storico del capoluogo umbro. Come ogni anno, paleontologi da tutta Italia hanno presentato i loro lavori, chi sotto forma di comunicazione orale e chi tramite uno dei molti poster sistemati sotto il porticato del chiostro.
Anche quest’anno Scienzafacile era presente alle Giornate con la sua piccola delegazione, composta da chi scrive nei panni di cronista e dall’amico Davide Bertè, che al contrario del sottoscritto è stato assai più produttivo e ha portato una comunicazione sui resti di lupo rinvenuti nella Grotta Romanelli nel Salento e un poster sulla simpatria tra specie di Canis nell’Italia del Pleistocene Inferiore.
Per prima cosa vorrei riportare due interessanti iniziative che hanno coinvolto i partecipanti più giovani al congresso. La prima, proposta direttamente dall’organizzazione e inaugurata l’anno scorso, è un concorso per ricompensare l’impegno delle nuove leve in cui sono stati premiati con una somma di denaro la miglior comunicazione ed il miglior poster presentati da un socio under 30.
La seconda è un’iniziativa nata da un gruppo di soci non strutturati della SPI battezzata Palaeontologist in Progress (o PaiP), collaterale al convegno ma patrocinata dagli organizzatori e dalla stessa Società. Si tratta di una tavola rotonda tenutasi mercoledì 22 maggio al Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Perugia, dove si è discusso di varie tematiche legate alla paleontologia, alcune di carattere più accademico, quali il concetto di specie e sottospecie e l’applicazione dell’osteologia allo studio dei reperti fossili, altre invece più incentrate sulla figura del paleontologo in sé, sul suo riconoscimento presso le pubbliche amministrazioni e sulla possibilità di accedere a collezioni e database elettronici. Cosa ancor più importante, sono state discusse delle proposte poi avanzate nel corso del consesso dei soci di sabato: la prima propone, con tanto di raccolta firme, di rinunciare o quantomeno rendere facoltativa la versione cartacea del Bollettino SPI così da ridurre le spese di stampa e soprattutto di spedizione della pubblicazione, investendo poi il denaro risparmiato in fondi per studenti, dottorandi e altri soci non strutturati; la seconda proposta è stata più che altro un invito ai soci a organizzare incontri a scopo divulgativo nelle proprie città, appoggiandosi al PaiP e alla SPI per ottenere un patrocinio formale e anche la collaborazione e partecipazione di altri soci. Il tutto allo scopo di dare maggior visibilità alla figura del paleontologo e anche di avvicinare i non addetti ai lavori al mondo della paleontologia.
Veniamo dunque al primo giorno ufficiale di congresso, giovedì 23 maggio, che si è aperto con il discorso di benvenuto da parte delle autorità, nella fattispecie il curatore del Museo Archeologico, a cui è seguita la comunicazione del relatore ospite Jordi Agustì, dell’Istituto Catalano di Paleoecologia Umana e Evoluzione Sociale, che ha presentato uno studio sull’effetto indotto dalle variazioni climatiche tra la fine del Pliocene e il Pleistocene Inferiore, in particolare sugli spostamenti degli ominidi. Agustì ha illustrato il sito di Dmanisi in Georgia, nel quale sono stati rinvenuti resti datati a 1,8 milioni di anni fa e attribuiti a Homo georgicus, e quello di Barranco Leon in Spagna, contenente le più antiche (1,3 milioni di anni fa) testimonianze umane in Europa occidentale. Dallo studio è emersa una correlazione tra l’età delle migrazioni umane e il clima, dove le principali fasi di dispersione corrispondono a periodi caratterizzati da condizioni più calde e umide rispetto a oggi.
Dopo questo intervento inaugurale ha avuto il via la serie di comunicazioni presentate dai partecipanti al congresso; divise in tre sessioni di 6-7 interventi, e intervallate da pause durante le quali era possibile rifocillarsi coi prodotti locali offerti dall’organizzazione, hanno coperto un ampio spettro di epoche e gruppi tassonomici. Nel corso della mattinata si è discusso di brachiopodi e di conodonti permiani, di ammonoidi triassici, della fauna cambriana di Chengjiang, di icnofossili (sia più in generale in merito alle loro relazioni reciproche, sia nel dettaglio con riguardo alle tracce di tetrapodi del Permiano del nord Italia), di pesci (con un lavoro sulla fluidodinamica delle scaglie e uno di sistematica), di foraminiferi e di molluschi.
Le presentazioni del pomeriggio hanno riguardato i nannofossili calcarei e poi una serie di lavori sui vertebrati, con mammiferi, uccelli e anfibi sotto i riflettori. La sessione si è conclusa con una comunicazione inerente lo studio dei dati lito, bio e magnetostratigrafici (vale a dire, le caratteristiche rispettivamente delle rocce, dei fossili e del segnale paleomagnetico) della porzione paleocenica nella successione della Gola del Bottaccione, non lontano da Gubbio, allo scopo di determinare la sua compatibilità con la vicina sezione della Contessa e con altre coeve nel mondo.
Quest’ultima comunicazione è stata un preambolo alla breve escursione tenutasi nella seconda parte del pomeriggio proprio nella Gola del Bottaccione dove, guidati dalla professoressa Isabella Premoli Silva e dal professor Rodolfo Coccioni che hanno studiato estensivamente la sezione, i congressisti hanno potuto ripercorrere attraverso il Cretaceo la successione di strati della formazione della Scaglia Rossa fino al livello che segna il passaggio dal Mesozoico al Cenozoico; si tratta dell’ormai celeberrimo livello argilloso contenente quantità anomale di iridio, elemento molto raro nella crosta terrestre ma abbondante nei meteoriti, sulla base del quale il gruppo di lavoro di Walter Alvarez elaborò nel 1980 la teoria secondo cui la crisi biologica verificatasi 65 milioni di anni fa è da attribuirsi a (o comunque ha tra le sue concause) l’impatto con un meteorite il cui cratere è stato in seguito trovato al largo della penisola dello Yucatan. Gli studi della Premoli, di natura micropaleontologica, hanno individuato ulteriori prove di quanto accaduto nelle comunità di foraminiferi planctonici osservate nelle rocce della sezione: laddove gli ultimi strati del Cretaceo di calcare biancastro contengono associazioni ricche ed eterogenee, lo strato ricco di iridio è del tutto disabitato, mentre i successivi strati di calcare rossastro dell’inizio del Paleocene sono popolati solo da forme piccole e poco diversificate ascrivibili a una sola specie, Globigerina eugubina, così chiamata proprio perché scoperta in quelle rocce vicine a Gubbio.
Qui mi permetto di accantonare per un attimo il distacco del cronista per dire quanto mi abbia impressionato osservare dal vivo un sito così iconico non solo per la sua importanza scientifica e storica, ma anche perché mostra materialmente la fine di un’era e l’inizio di un’altra, con quel livello spesso una spanna stretto fra gli ultimi strati del Cretaceo e i primi del Paleocene che rappresenta un lasso di tempo in cui l’intero pianeta è stato sconvolto; è come leggere un libro in cui è narrata la quiete prima della tempesta, seguita da un breve quanto apocalittico capitolo, e poi la cronaca del nuovo mondo dopo il cataclisma. A onore del vero credo che il mio sia stato un sentimento comune, almeno a giudicare da quanti, indipendentemente dall’età e dalla posizione accademica occupata, si sono fatti fotografare accanto al leggendario livello.
Il secondo giorno di congresso è stato interamente dedicato all’escursione sul terreno, nel corso del quale sono state toccate varie località dell’Umbria di interesse paleontologico. La prima in ordine di tempo è stata la Foresta Fossile di Dunarobba, situata nei pressi di Avigliano Umbro.
Questo sito è caratterizzato dalla presenza di resti di una cinquantina di tronchi fossili rinvenuti in molti casi ancora in posizione di vita; la peculiarità è che, pur avendo 2,5 milioni di anni di età, il loro legno si è perfettamente conservato grazie all’argilla che li ha rapidamente seppelliti in una condizione descrivibile al meglio come una mummificazione, preservandoli dall’aggressione di microbi e batteri e dalla furia degli elementi. La Foresta Fossile è compresa nell’unità denominata pliocenica del Fosso Bianco, che consiste in sedimenti prevalentemente argillosi di ambienti lacustri poco o relativamente profondi del cosiddetto Bacino Tiberino, oggi corrispondente alla media valle del Tevere. La Foresta Fossile sorgeva presso una palude lungo il margine di questo bacino, nella quale si depositavano sedimenti pelitici il cui accumulo lento ma costante unito a una rapida subsidenza ha sepolto rapidamente i tronchi in un involucro di argilla isolante prima della loro decomposizione. Dall’analisi del contenuto paleobotanico (fruttificazioni e pollini) dei sedimenti circostanti si ipotizza che i tronchi appartengano a delle Taxodiaceae, sebbene un’identificazione più precisa non sia possibile poiché è molto difficile associare fra loro resti vegetali diversi come elementi lignei e polline; l’associazione botanica suggerisce inoltre che la Foresta Fossile sia cresciuta in una fase del Pliocene con un clima più caldo rispetto all’attuale. I tronchi fossili sono noti fin dal 1600, e nel corso del XX secolo sono stati esumati in seguito alle operazioni di estrazione dapprima della lignite e poi dell’argilla. Oggi gran parte degli esemplari è esposta e visibile, protetta dalle intemperie da delle tettoie, anche se attorno ad alcuni tronchi è stata costruita una struttura chiusa a temperatura e umidità controllate allo scopo di preservarli al meglio. Il loro disseppellimento li ha infatti privati dell’ambiente confinato che li ha protetti così a lungo, e nel trovarsi esposti all’azione degli agenti atmosferici molti di essi sono andati incontro a fenomeni di alterazione che li stanno letteralmente disgregando.
Da Dunarobba l’escursione è poi proseguita toccando una serie di località presso le quali sono visibili i depositi marini plio-pleistocenici che si sono accumulati nel Bacino della Valdichiana, più a ovest rispetto al Bacino Tiberino. I vari stop hanno riguardato sezioni formatesi in vari contesti del bacino, da quello costiero a quelli più distali e profondi, in un lasso di tempo compreso tra la fine del Pliocene (Gelasiano) e il Pleistocene Inferiore (Santeriano).
Presso Scoppieto affiora un deposito di clasti di dimensioni variabili dai ciottoli di alcuni centimetri fino anche a blocchi metrici, prodotti dall’azione combinata del moto ondoso e dal crollo di porzioni della falesia stessa. Gran parte dei clasti è intaccata dall’azione di organismi come i bivalvi litodomi (genere Lithophaga), che si insediavano all’interno dei ciottoli corrodendoli e formando le peculiari cavità a forma di goccia, o i poriferi; oltre ad essi v’erano anche organismi incrostanti come ostreidi e balanidi.
Lo stop successivo è stato alla cava di S. Lazzaro in località Ficulle. Si tratta di una vecchia cava ormai dismessa in cui è visibile una successione di sabbie fini limoso-argillose depositatesi in ambiente tranquillo e poco interessato dall’azione del moto ondoso. Ciò ha permesso l’accumulo e la conservazione di grandi quantità di fossili; il colpo d’occhio giungendo sul sito è davvero impressionante, con il sedimento marrone e beige punteggiato da una miriade di frammenti bianchi, che se osservati attentamente si rivelano essere tutti fossili, da frammenti di pochi millimetri fino a conchiglie grandi come piattini da caffè, appartenuti soprattutto a bivalvi e gasteropodi qui rappresentati da almeno una cinquantina di specie diverse.
In seguito l’escursione ha fatto tappa a Città della Pieve, presso la quale è visibile una successione di ambiente deltizio, più precisamente la parte più distale del fronte del delta. La sezione mostra strutture sedimentarie attribuibili a dune sabbiose sottomarine, la cui base è marcata da shell beds contenenti quasi esclusivamente Flabellipecten flabelliformis; sono anche stati rilevati segni di bioturbazione ascritti agli icnogeneri Thalassinoides e Ophiomorpha.
L’ultima tappa dell’escursione ha avuto luogo presso il Museo Paleontologico recentemente allestito a Pietrafitta. Questa struttura ospita una vasta collezione di resti rinvenuti durante le operazioni di estrazione della lignite nell’area circostante il paese; il contributo maggiore nell’assemblaggio di tale collezione si deve a Luigi Boldrini, che per più di vent’anni ha raccolto i fossili che venivano riportati alla luce e a cui il museo è doverosamente intitolato. La collezione del museo di Pietrafitta rappresenta un’importante associazione fossile del Pleistocene Inferiore, in particolare dell’ultima parte dell’età a mammiferi denominata Villafranchiano, e più precisamente appartiene all’unità faunistica di Farneta databile a circa 1,5 milioni di anni fa. I depositi di lignite nei quali sono state trovate le ossa fanno parte della successione sedimentaria del Bacino di Tavernelle, e nella fattispecie i livelli fossiliferi fanno capo al subsintema (sottounità del sintema, unità di base del sistema a limiti inconformi) di Pietrafitta, che rappresenta un’area paludosa interessata da elevata produzione di materia organica, probabilmente ubicata in prossimità di un bacino lacustre a sedimentazione fine che in occasione di eventi eccezionali trasportava il sedimento argilloso verso la palude, formando i livelli a invertebrati d’acqua dolce che intercalano le ligniti. Queste ultime sono state formate soprattutto dall’accumulo di piante erbacee, ma non mancano alcuni tronchi anche piuttosto grandi, uno dei quali si trova proprio all’ingresso del museo. La collezione del museo è esposta in una grande sala circolare dove, dopo alcuni pannelli sull’inquadramento storico e geologico del sito, una serie di vetrine ospita i resti fossili organizzati per gruppo tassonomico: vi sono resti frammentari di pesci, varie ossa di anfibi (tra cui l’ultima presenza nota del genere Latonia), rettili (con vipere e la testuggine palustre Emys orbicularis) e uccelli (varie forme acquatiche o legate ad ambienti prossimi all’acqua, più una terricola comparabile a Gallus). I mammiferi sono rappresentati da vari roditori tra cui il castoro Castor fiber plicidens, dal primate Macaca florentina-sylvanus, da una delle ultime segnalazioni di Ursus etruscus e dal mustelide Pannonictis nestii. I grandi erbivori annoverano il rinoceronte di piccola taglia Stephanorhinus con una specie affine a S. hundsheimensis, il bovide Leptobos (che in virtù della morfoglogia delle corna è stato avvicinato a L. vallisarni) e due cervidi, il più piccolo Pseudodama farnetensis e l’assai più grande Praemegaceros obscurus. I fossili più spettacolari appartengono però al proboscidato Mammuthus meridionalis, del quale sono esposti alcuni esemplari al centro della sala; questi non sono stati montati, ma sono ancora conservati nella stessa condizione del loro ritrovamento sorretti dalle cosiddette “culle” in cemento, che altro non sono se non il rivestimento protettivo in cui sono stati avvolti per l’estrazione; ciò che si vede è quindi il lato inferiore del blocco opportunamente preparato per mostrare le ossa. Allo stesso modo è esposto uno dei due scheletri di rinoceronte (l’altro è invece montato) conservati nella saletta laterale dove i partecipanti al congresso hanno assistito a una breve performance canora di un coro femminile, a seguito della quale si è tenuta la cena sociale che ha concluso degnamente la seconda giornata.
La terza e ultima giornata di congresso è stata interamente dedicata alle comunicazioni orali, tenutesi pure in questo caso al Museo Archeologico di Perugia. Anche in questa serie di sessioni sono stati toccati numerosi argomenti, fra cui conodonti ordoviciani, nannofossili calcarei e pesci del Cretaceo, gasteropodi e coralli dell’Eocene e, per arrivare in tempi più recenti, macromammiferi del Messiniano ed elefanti del Pleistocene.
Nella seconda sessione mattutina è stato dato ampio spazio agli organismi bentonici, con comunicazioni inerenti i rodoliti algali miocenici, i banchi a nummuliti e le comunità associate ai coralli di mare profondo dello Ionio; sono poi stati presentati ben due lavori sugli organismi planctonici calcarei e studi più vari sull’ambra dei Calcari Grigi, sul record fossile dei varani italiani e sugli ostracodi del lago albanese di Scutari.
La terza e ultima sessione, tenutasi dopo pranzo, si è focalizzata sui vertebrati. A parte una comunicazione di argomento paleobotanico sulle macrofite del lago di Pietrafitta, le altre hanno riguardato anfibi (Rana temporaria) e mammiferi (i lupi della Grotta Romanelli, i proboscidati dell’Eritrea e il canide Cuon dall’Italia meridionale), o più in generale associazioni fossili (Coste San Giacomo e Vallone Inferno), e anche una presentazione della collezione di mammiferi fossili conservati all’Università di Messina.
Nella seconda parte del pomeriggio si è tenuto il consiglio della Società Paleontologica Italiana, in cui si è discusso delle iniziative future e più in generale del futuro della società e della paleontologia in Italia. Non starò a tediare con i dettagli chi ha avuto la pazienza di seguirmi fino a questo punto, mi limito solo a menzionare l’annuncio della sede in cui si terrà l’edizione 2014, che sarà a Bari.
Giunto al momento di tirare le somme posso dire con grande piacere che anche l’edizione 2013 delle Giornate di Paleontologia è stata un’esperienza molto positiva, al pari con le precedenti. Dopo aver partecipato per tre anni al congresso non posso che rimarcare il valore di questo evento annuale che permette ai paleontologi di tutta Italia di riunirsi per scambiarsi pareri, opinioni e conoscenze (e anche per ritrovarsi tra amici, perché no), oltre che per recarsi in siti che altrimenti, per un motivo o per l’altro, non si avrebbe l’opportunità di visitare in altre occasioni.
In aggiunta a ciò, è doveroso evidenziare come, anno dopo anno, la presenza e la partecipazione dei giovani (ricercatori, studenti, dottorandi o anche semplici appassionati) sia stata sempre più importante. Posso personalmente testimoniare come il numero dei giovani presenti alle Giornate SPI sia stato sempre più grande, da meno di un terzo dei partecipanti nel 2011, a metà dei presenti l’anno scorso, fino a quest’anno dove erano praticamente la maggioranza. E il contributo della nuova generazione di paleontologi si è fatto sentire anche a livello organizzativo, visto che col rinnovo dei membri del corpo gestionale della SPI avvenuto nelle due ultime edizioni si è assistito a un netto ricambio generazionale all’interno del consiglio.
Questo supera persino quanto auspicai a suo tempo a proposito dell’edizione 2012, perché conferma
che lo studio della paleontologia è più vivo che mai nel nostro paese. Vedere come ogni anno sempre più giovani partecipino a eventi come le giornate SPI dovrebbe essere uno sprone alle istituzioni affinché investano di più nella ricerca, e consentano a tutti coloro che coltivano la passione per lo studio della paleontologia di poter dare il loro contributo. Purtroppo i tempi difficili in cui viviamo non permettono di investire quanto si dovrebbe, ma bisognerebbe avere una visione più ampia delle cose, e guardare al futuro per mantenere viva una scienza così affascinante.