Come ogni anno, con l’inizio dell’estate la Società Paleontologica Italiana si riunisce per l’annuale adunanza dei soci nel corso delle Giornate di Paleontologia. Quest’anno il congresso è giunto alla sua quindicesima edizione e si è tenuto a Palermo tra il 27 e il 29 maggio, organizzato dai docenti dell’Università degli Studi di Palermo nella suggestiva cornice dell’orto botanico del capoluogo siciliano. Com’è ormai tradizione da alcuni anni, anche Scienzafacile era presente all’evento, rappresentata da chi vi scrive che nelle righe che seguono vi riassumerà brevemente gli eventi e le novità nel campo paleontologico che hanno caratterizzato i tre giorni del congresso.
Prima di riportare la cronaca delle giornate, per così dire, “ufficiali” di congresso è doveroso spendere qualche parola a proposito dell’iniziativa che accompagna i Paleodays da alcuni anni, ossia la tavola rotonda di Paleontologists in Progress, in breve PaiP, organizzata dai giovani ricercatori soci della SPI che si riuniscono per discutere di questioni legate alla Paleontologia che vanno al di là delle ricerche presentate durante le sessioni del congresso. L’edizione palermitana della tavola rotonda si è tenuta nell’aula conferenze del Museo “G. G. Gemmellaro” di Palermo; le domande proposte dai partecipanti sono state una dozzina, ognuna delle quali ha poi fatto da spunto di discussione tra i presenti. Un aspetto interessante, che non è passato inosservato durante l’incontro, è che parecchi degli spunti esprimevano la difficoltà nel reperire finanziamenti e nel trovare sbocchi nel mondo del lavoro o per proseguire nel mondo della ricerca. E’ un’amara immagine dei problemi che la ricerca paleontologica incontra oggigiorno in Italia.
Dal canto loro, altre domande sono state più prettamente tecniche e hanno riguardato i software che si possono impiegare per svolgere analisi filogenetiche, l’esistenza di studi paleontologici riferiti al passato recente, inteso come gli ultimi 4000 anni, e un quesito venato di una certa nota filosofica circa la validità del termine Antropocene e se è effettivamente sensato definire con questo nome l’epoca moderna.
E’ stato un incontro senz’altro molto interessante, ricco di opportunità per confrontare le proprie idee ed esperienze, e si è degnamente concluso con la proiezione di uno spezzone dell’intervista fatta a Michael Benton dell’Università di Bristol in cui ha parlato del fenomeno dell’insularismo, cioè delle modifiche (soprattutto per quanto riguarda la taglia corporea) cui vanno incontro gli organismi che si vengono a trovare in un ambiente con spazio e risorse limitati qual è quello delle isole; la scelta è caduta su questo argomento in onore della città che ospita il congresso, capoluogo di un’isola famosa per casi eclatanti di questo fenomeno.
Le iniziative del PaiP non si sono però concluse con la tavola rotonda, proseguendo durante i tre giorni di congresso con un’asta in cui i soci della SPI hanno messo in palio vari articoli come fossili e piccoli gadget ma anche pezzi più pregiati come pubblicazioni assortite e libri. Il ricavato è stato devoluto a rimpolpare le casse della Società ed è stato anche piuttosto sostanzioso, avendo raccolto più di 200 euro. L’adesione è stata quindi numerosa e c’è da augurarsi che possa ripetersi anche negli anni a venire.
Nella mattinata di mercoledì 27 maggio si sono aperti ufficialmente i lavori del congresso con la riunione dei soci presso la sala conferenze dell’orto botanico. L’impostazione dell’evento è ormai consolidata – e immagino nota ai lettori più affezionati di questo blog – e consiste in una serie di comunicazioni orali della durata di circa un quarto d’ora ripartite in varie sessioni. Ovviamente è impossibile riportare nel dettaglio tutti gli argomenti trattati, ma fare anche solo un rapido elenco di quanto esposto può dare un’idea dell’ampia gamma di argomenti, gruppi e metodi di lavoro illustrati dai vari autori.
Dopo il saluto delle autorità ha avuto inizio la prima sessione, che ha principalmente riguardato i vertebrati cenozoici con lavori sui pesci dell’Eocene e del Miocene, sul contenuto dello stomaco dei cetacei, sulle faune marine del Pliocene toscano e sui vertebrati del Messiniano del Piemonte.
La seconda sessione si è aperta con la paleobotanica con due ricerche su flore fossili del Giurassico sardo e del Permiano trentino, per poi passare a ben altro tipo di alberi – quelli filogenetici – con un lavoro sulla filogenesi dei tetrapodi basali, e si è quindi conclusa con altre due comunicazioni riguardanti stavolta animali che gli alberi li mangiavano, nella fattispecie i dinosauri sauropodi: si è parlato dell’analisi morfometrica delle vertebre caudali e quindi della revisione tassonomica dei Diplodocidae; e di quest’ultimo lavoro ne riparleremo prossimamente qui su Scienzafacile, perché ha presentato risultati rimarchevoli dal punto di vista del metodo di lavoro usato e dei risultati ottenuti, uno dei quali è anche passato all’onore delle cronache in quanto ha ridato validità al genere Brontosaurus annullando così decenni di correzioni e reprimende verso chi ingenuamente lo usava ancora al posto di Apatosaurus.
Col chiudersi della sessione i partecipanti si sono recati all’esterno per la meritata pausa pranzo all’ombra delle piante dell’orto botanico, e dopo essersi saziati con piatti regionali di ogni sorta è seguita una visita guidata all’illustre e storica istituzione. Qualche nota su questa struttura: nata alla fine del Settecento con un primo nucleo costruito tra il 1789 e il 1795, anno della sua inaugurazione, ha assunto il suo assetto attuale nel 1906 raggiungendo l’estensione di circa dieci ettari. La collezione consiste in circa diecimila specie coltivate in piena terra e in vaso, tra cui una parte più antica in cui sono disposte secondo il sistema linneano basato sulla struttura dei fiori, un settore risalente al primo Novecento organizzato seguendo il sistema di Engler e poi varie serre e settori dedicati a piante medicinali e aromatiche, piante da frutto tropicali, cicadee, palme e piante con impieghi nell’agricoltura e nell’industria; ad esse si aggiungono circa 600.000 campioni conservati nell’erbario, una biblioteca con più di mille opere fra cui testi rari e pregiati, e una banca del germoplasma che preserva semi di specie a rischio di estinzione.
Al rientro dalla visita guidata sono quindi riprese le comunicazioni orali, che nelle due sessioni pomeridiane hanno trattato la micropaleontologia nelle sue molte sfaccettature, partendo dai coccoliti per passare ai foraminiferi, agli ostracodi e ai microbial mats, ed esplorando le varie applicazioni di questi organismi nelle ricostruzioni paleoclimatiche e paleoceanografiche oltre che nella biostratigrafia.
La giornata si è conclusa con una visita – la seconda, per chi ha preso parte alla tavola rotonda del PaiP il giorno prima – al museo Gemmellaro, in onore di Gaetano Giorgio Gemmellaro che lo fondò nel 1866 e lo gestì fino alla sua morte nel 1904. Situato in corso Tukory, in origine il museo si trovava al Gabinetto di Storia Naturale presso la casa dei Padri Teatini in via Maqueda, oggi sede della Facoltà di Giurisprudenza; caduto vittima dei danni causati dal terremoto del 1941 prima e dai bombardamenti del 1943 poi, il museo venne chiuso nel 1965 destinando la sua sede ad altre funzioni mentre i reperti venivano imballati in casse accatastate in magazzini di fortuna. Nel 1970 l’Istituto di Geologia venne trasferito nell’attuale sede di corso Tukory e destinò l’intero piano terra dell’edificio al museo; con la nomina nel 1975 del paleontologo Enzo Burgio a conservatore la collezione fu riallestita in un processo iniziato con la riapertura al pubblico nel 1978 e conclusosi nel 1985, quando divenne una sezione del costituito Dipartimento di Geologia e Geodesia.
La collezione esposta comprende una grande varietà di reperti, con particolare attenzione per quelli provenienti dalla Sicilia. Vanno senz’altro segnalati i molti invertebrati del Permiano e del Triassico, comprensivi di diorami che illustrano le varie associazioni di organismi presenti all’epoca, i resti di cetacei del Miocene dei generi Neosqualodon e Squalodon, lo scheletro di “Thea”, una donna vissuta nel Paleolitico Superiore e rinvenuta nella Grotta di San Teodoro presso Acquedolci nel Messinese (che per la cronaca fu una delle soste durante le Giornate di Paleontologia del 2012), e i molti esemplari di cristalli di calcite, aragonite, celestina, gesso, salgemma e zolfo risalenti per la maggior parte al Messiniano (Miocene Superiore) e appartenenti alla cosiddetta Serie gessoso-solfifera depostasi quando la chiusura dello Stretto di Gibilterra portò al progressivo disseccamento del Mediterraneo con la formazione di depositi evaporitici. Di grande interesse è anche la sala al secondo piano che ospita numerosi reperti relativi ai proboscidati nani e agli altri vertebrati che popolarono la Sicilia durante il Pleistocene medio-superiore; tra questi vi sono esemplari completi degli elefanti Palaeoloxodon falconeri e Palaeoloxodon mnaidriensis, resti di ippopotami, leoni e iene delle caverne, vari ungulati e anche una testuggine gigante.
Scheletro di Palaeoloxodon falconeri, museo Gemmellaro di Palermo
Giovedì 28 maggio ha avuto luogo l’escursione sul terreno, il cui itinerario ha toccato alcuni siti fossiliferi che caratterizzano l’area attorno a Palermo. In particolare l’uscita si è articolata su cinque soste in altrettante località ubicate nella zona a nordovest di Palermo e, più a occidente, nei dintorni di Alcamo.
La prima fermata è stata il Monte Pellegrino, una successione carbonatica che va dal Triassico fino al Luteziano (Eocene medio) i cui versanti, dati da falesie a strapiombo soggette a frane e crolli, sono incisi da grotte e cavità di origine sia carsica che erosiva e tettonica. Oltre a poter osservare le rocce della successione, tra cui livelli contenenti molluschi di vario tipo, scopo dello stop è stato la visita alla Grotta dell’Addaura, che a dispetto di essere una cavità relativamente poco estesa – una decina di metri di altezza per altrettanti di profondità – è rimarchevole per la presenza di incisioni rupestri sulle pareti. Questi graffiti ritraggono animali come cervi e bovini insieme a varie figure umane, alcune delle quali riunite in circolo attorno a quello che è stato variamente interpretato come una danza, una lotta o un qualche tipo di rituale; queste incisioni sono state datate al periodo finale dell’Epigravettiano, corrispondente al Paleolitico Superiore e quindi attorno a 10.000 anni fa.
A supporto della datazione vi sono alcuni resti visibili appena fuori dalla grotta, dati da accumuli di gusci di molluschi sia continentali sia marini e da frammenti ossei, molti dei quali inglobati nella roccia calcarea; si pensa che questi resti siano avanzi di pasti di Homo sapiens, che raccoglieva i molluschi sulla costa e nei corsi d’acqua e poi gettava i gusci fuori dalla grotta; la circolazione di acque ricche in carbonato di calcio in soluzione avrebbe poi fatto precipitare il cemento carbonatico che ha inglobato i resti; la presenza fra di essi di Patella ferruginea fa ipotizzare che l’insediamento umano, che potrebbe anche aver prodotto i graffiti, si sia sviluppato nella fase di riscaldamento climatico iniziato attorno a 11.000 anni fa.
La seconda tappa dell’escursione è stata Alcamo, in provincia di Trapani. Questa città sorge nei pressi di depositi di travertino, una particolare roccia calcarea che si forma in ambiente continentale e che nella zona viene estratta come pietra per l’edilizia sin dal XIV secolo. La peculiarità dei travertini di Alcamo è che insieme ai resti vegetali che si trovano sovente in questo tipo di roccia sono stati rinvenuti anche numerosi resti fossili di animali, in quantità tale da poter mettere insieme una vasta collezione di reperti, alcuni dei quali sono conservati ed esposti al museo Gemmellaro; la cosa più importante è che questi resti formano due distinte associazioni faunistiche rinvenute in successione stratigrafica, che rappresentano altrettante fasi di colonizzazione e differenziazione della Sicilia da parte di faune provenienti dal continente.
Uova di testuggine nel travertino, Alcamo
ll’interno dei travertini stessi è stata rinvenuta l’associazione più antica, databile a circa 500.000 anni fa (Pleistocene Medio) grazie alla presenza di resti dell’elefante nano Palaeoloxodon falconeri; questo caso da manuale di insularismo è rappresentato da decine di reperti appartenuti a vari individui e comprendenti ossa di quasi tutto lo scheletro, compresi dei calchi encefalici. Dopo l’elefante la specie più rappresentata è la testuggine gigante, della quale è stato trovato non solo un modello interno del guscio la cui copia è esposta al museo Gemmellaro, ma anche varie ossa degli arti e centinaia di uova, che indicano come la zona di Alcamo fosse frequentemente un terreno di deposizione da parte di questi rettili.
La seconda associazione faunistica proviene dal riempimento di fessure da parte di un sedimento continentale identificato come un paleosuolo, al cui interno sono state recuperate ossa di un’altra specie di elefante siciliano di taglia ridotta, vale a dire Palaeoloxodon mnaidriensis. Il ritrovamento colloca questa seconda associazione, l’ultima a popolare la Sicilia prima dell’arrivo dell’uomo, al Pleistocene Superiore; inoltre, il fatto di avere l’associazione a P. falconeri stratigraficamente più bassa rispetto a quella a P. mnaidriensis retrodata la prima a un’età più antica rispetto alla seconda e dimostra che non esiste una correlazione filogenetica fa le due faune, che sono giunte in momenti successivi sull’isola; laddove è accettabile che un elefante di taglia standard in ambiente insulare possa essersi rimpicciolito fino alla taglia di P. falconeri, è meno plausibile che si sia poi ingrandito di nuovo fino alle dimensioni di P. mnaidriensis rispetto invece ad avere due eventi di immigrazione dal continente cui è seguita una riduzione delle dimensioni.
Il terzo stop si è tenuto in un agriturismo nei pressi di Alcamo, e come si può immaginare si è trattato di una corposa pausa pranzo con ogni genere di prodotto tipico siciliano, accompagnato da un’ampia varietà di vini offerti dalla cantina del luogo, il tutto all’aperto di un grande cortile sotto il caldo sole del sud Italia. E’ il bello dei congressi di paleontologia: tanto cibo per la mente, ma anche per il corpo.
Una volta che tutti si sono riempiti per bene lo stomaco l’escursione è proseguita, spostandosi nel pomeriggio verso nordest e tornando nella zona circostante Palermo, per la precisione in località Carini. Qui, nella roccia calcarea mesozoica del Monte Pecoraio a circa 90 metri sul livello del mare, si trova l’ingresso della Grotta dei Puntali. Si tratta di una cavità che si estende per un centinaio di metri per lo più in orizzontale, interessata dall’azione sulla roccia delle ingressioni marine nella parte più esterna e dall’attività carsica all’interno. Sono ancora oggi attivi processi di formazione di strutture come le stalagmiti, mentre nella sua parte più interna la grotta si fa più stretta e tortuosa e si sviluppano concrezioni carbonatiche e vari cunicoli generati da un regime freatico di consistente entità.
Ingresso della Grotta dei Puntali, Carini (PA)
La caratteristica più interessante ai fini paleontologici sono gli orizzonti ossiferi presenti nel deposito di grotta a una trentina di metri dall’ingresso; oggi relativamente poveri di resti, furono oggetto di scavo da parte di Gaetano Giorgio Gemmellaro tra il 1868 e il 1870, e poi di ulteriori campagne nei decenni successivi. La collezione raccolta annovera un grande numero di resti riconducibili a svariati esemplari di P. mnaidriensis, uno scheletro completo di P. falconeri oggi conservato a Firenze, e anche altri animali fra cui il cervo Megaceros.
Il quinto e ultimo stop è stato una visita alla sezione di Cozzo di Lupo, più precisamente un affioramento a circa un chilometro a est del paese di Torretta a una quota di circa 550 metri, dove sono visibili facies carbonatiche del Triassico Superiore. Si tratta di grandi reef (inteso in senso più esteso come scogliere di natura organogena, delle quali le attuali barriere coralline sono solo una tipologia) che formavano una barriera ai margini della piattaforma carbonatica esistente alle propaggini occidentali della Tetide e denominata Panormide. La sezione affiorante a Cozzo di Lupo mostra in particolare la transizione da boundstone massive a spugne e chetetidi, tipiche della zona centrale del reef, verso cicli asimmetrici potenti 3-5 metri formati da grainstone ad alghe e megalodonti (che sono dei bivalvi estinti, da non confondere con lo squalo gigante Carcharodon megalodon vissuto molto tempo dopo nel Cenozoico), da bafflestone a coralli e da bafflestone a cianofite (alghe calcaree) del gruppo dei Porostromata; questi cicli vengono interpretati come sedimenti di back reef (cioè della zona sottocosta posta alle spalle del reef e protetta da esso) ad alta energia influenzati dalle fluttuazioni del livello marino.
Le unità di reef visibili a Cozzo di Lupo consistono invece di calcari massivi e, localmente, di dolomie dello spessore dell’ordine delle centinaia di metri, per lo più biocostruite da spugne calcaree dei gruppi degli inozoi, sphinctozoi e chetetidi; i coralli sono invece rari. Intorno al limite Triassico-Giurassico una breve fase di esposizione subaerea ha portato alla formazione di piccole cavità da dissoluzione diagenetica, nelle quali si è depositato un silt vadoso rossastro. Verso l’alto i calcari di reef vengono poi troncati da una superficie erosiva cui seguono packstone a brachiopodi e wackestone ad ammoniti la cui età va dal Pliensbachiano all’Oxfordiano, quindi databili dalla fine del Giurassico Inferiore all’inizio del Giurassico Superiore. Il tutto è attraversato da dicchi nettuniani, ossia riempimenti delle fratture che attraversano la successione e che qui consistono in brecce grossolane o calcari a grana fine di età giurassica.
La nostra cronaca arriva dunque a venerdì 29 maggio con l’ultimo giorno di congresso, dedicato come il primo alle comunicazioni orali. Nella prima sessione si è parlato di associazioni fossili, da quelle di grotta del Tirreniano della Sicilia a quella di Bolca coi suoi pesci, e di studi sul clima e i paleoambienti svolti esaminando i resti degli organismi, in un caso il bivalve Arctica islandica e nell’altro i briozoi antartici.
Nella seconda sessione, invero piuttosto corposa con ben dodici comunicazioni consecutive, si è spaziato dagli ostreidi miocenici della Repubblica Ceca alla fauna dell’Eocene del Monte Postale, dalle parti di Bolca, agli Ammonoidi dei Monti Sicani con le loro implicazioni biostratigrafiche e del Toarciano del Lussemburgo fino ai calcari pelagici del Ladinico delle Madonie. Dopo di ciò si è proseguito con una serie di comunicazioni relative ai vertebrati: una revisione dei gechi neogenici e quaternari italiani, l’analisi alla luce di sincrotrone del felide Acinonyx pardinensis, due studi sui vertebrati siciliani, rispettivamente i micromammiferi con il loro contributo alla biocronologia del Quaternario e le testuggini giganti siciliane, quest’ultima a ripresa di quanto già visto al museo Gemmellaro e ad Alcamo; sono seguite la prima di due comunicazioni sul sito della Polledrara di Cecanibbio con la sua fauna a mammiferi e infine studi sui cervi dell’isola di Creta e sull’anuro Pelobates syriacus del Pleistocene Inferiore italiano.
L’ultima sessione di comunicazioni, tenutasi nel pomeriggio, ha ulteriormente approfondito l’ambito dei vertebrati cenozoici, dando spazio a lavori sui proboscidati, sui carnivori del Pleistocene della Puglia e sulle faune del bacino di Anagni, della Spagna e, sempre riallacciandosi a quanto visto durante l’escursione e al museo, nei travertini di Alcamo.
Parallelamente alle comunicazioni orali sono state presentate altre ricerche sotto forma dei poster allestiti fuori dalla sala conferenze dell’orto botanico. Anche qui la quantità di argomenti illustrati è stata ampia e variegata: volendo fare una rapida carrellata, erano presenti lavori su squali mesozoici, cetacei del Miocene, pesci teleostei dell’Eritrea, cirripedi salentini, ma anche su dinosauri spagnoli ed ittiosauri rinvenuti sugli Appennini, rettili (captorinidi permiani e testuggini dell’ultimo periodo glaciale della Sicilia), icnofossili, studi paleoclimatici e paleoambientali basati sull’analisi di carote, di associazioni di foraminiferi (ce n’erano svariati di questi ultimi, a testimoniare l’importanza di questi microorganismi come indicatori ambientali) e di accumuli di ambra, e poi molti lavori su invertebrati fra cui ostracodi, echinidi, ammonoidi, belemniti e brachiopodi; molto rappresentati i mammiferi, con lavori su micromammiferi, primati e ominini, ungulati, roditori e suidi. Erano poi presenti poster legati più al lavoro del paleontologo in sé che allo studio di un fossile specifico, ed essi trattavano il nuovo allestimento del museo Gemmellaro, proposte per la digitalizzazione e la valorizzazione degli archivi e delle schede di catalogazione dei fossili, e l’impiego della tecnologia di imaging 3D per la ricostruzione dei fossili.
Il congresso si è infine chiuso con l’assemblea plenaria dei soci, durante la quale sono stati eletti i nuovi membri del consiglio della Società; per dovere di cronaca riportiamo qui l’elezione di Lorenzo Rook a nuovo Presidente, di Lucia Angiolini a Vicepresidente, di Marco Chiari a Segretario e di Fabrizio Frontalini e Giorgio Carnevale come Consiglieri.
In conclusione dei lavori sono stati dichiarati i vincitori del concorso riservato ai giovani, con la consegna di un premio in denaro per la migliore comunicazione e il miglior poster; sono stati premiati Giulia Margaritelli dell’Università di Perugia e Barthèlèmy Giannetti della Sapienza di Roma per la miglior comunicazione orale relativa rispettivamente ai micro e ai macrofossili, mentre i premi per il miglior poster sono andati a Leonardo Sorbelli dell’Università di Perugia per i macrofossili e a Irene Giliberti dell’Università di Palermo per i microfossili.
In conclusione, posso dire che anche quest’anno è stato un vero piacere per me prendere parte alle Giornate di Paleontologia 2015, che ancora una volta si sono dimostrate un evento importante per l’incontro e lo scambio di idee tra i paleontologi italiani; la partecipazione è stata numerosa, con all’incirca un centinaio di presenze, e ancora una volta tanti sono stati i giovani, sempre di più a ogni edizione. Come ripeto ogni anno, la paleontologia è in vita e lotta insieme a noi, sono tanti i giovani paleontologi che contribuiscono a mantenerla una scienza viva – nonostante ironicamente studi organismi morti da migliaia o milioni di anni – e sarebbe una grossa perdita per il patrimonio culturale del nostro paese se si vedessero costretti a ingrossare le fila dei “cervelli in fuga”, per usare l’espressione che tanto piace ai giornalisti, a causa della mancanza di fondi e di supporto da parte delle università. Speriamo che auspicare che le cose cambino in meglio non sia solo un’utopia.
Per quanto riguarda le Giornate di Paleontologia, l’appuntamento è per l’anno prossimo a Faenza, e almeno in questo caso sperare che possa esserci la stessa partecipazione ed entusiasmo è più di un’illusione.