Il concetto di specie

Davide Bertè 27 luglio 2011

Davide Bertè

Tutti noi siamo in grado di distinguere varie specie e di apprezzarne la diversità. Ma che cos’è in realtà una specie? La domanda potrebbe sembrare banale, eppure non lo è.

La definizione di cosa sia una specie è cambiata molto nel tempo: essa è lo specchio di come l’uomo concepisce la Natura e inoltre varia molto a seconda del tipo di approccio (un paleontologo ha a disposizione strumenti diversi da quelli di un biologo). Sono state proposte molte definizioni, ma far rientrare la straordinaria diversità di casi in un’unica definizione non è affatto semplice. Il problema è molto complesso e non pretendo di essere esaustivo…

Ripercorreremo la storia del concetto di specie dal 1735, anno di pubblicazione del Sistema Naturæ di Linneo, passando per l’Origine delle specie di Darwin, per giungere fino ai nostri giorni.

Linneo e il concetto tipologico

Systema Naturae

Se vogliamo parlare di specie bisogna partire per forza da Carls Nillssen Linnæus (1707-1778), botanico svedese che nel 1735 pubblicò il Sistema Naturæ. Linneo è l’inventore della nomenclatura binomia (vedi articolo dedicato), ovvero l’attuale sistema per classificare gli organismi. Ancora oggi utilizziamo il sistema di classificazione inventato da Linneo, ma come concepiva le specie?

Oggi riteniamo che la classificazione binomia rispecchi il grado di parentela tra le specie ma per Linneo rifletteva l’ordine dato da Dio al mondo: le specie sono tante quante create all’inizio dall’Ente Infinito ed esse si moltiplicano secondo le leggi della riproduzione a loro imposte ma rimanendo sempre simili a se stesse.

L’approccio di Linneo è tipologico: esiste un “tipo ideale”, presente come modello nella mente di Dio, dal quale la realtà si può discostare leggermente.

La nascita del pensiero evoluzionistico

Ai primi dell’800, con la nascita del pensiero evoluzionistico, le cose cominciano a cambiare. Uno degli esponenti più famosi di questa rivoluzione concettuale è sicuramente Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829), naturalista francese autore della Philosophie zoologique (1809). Nella sua opera Lamarck esponeva due leggi:

1- Legge dell’uso e del disuso delle parti: ogni organismo tende a sviluppare maggiormente gli organi che utilizza più frequentemente e a ridurre quelli che non usa.

2- Ereditarietà dei caratteri acquisiti: i caratteri ottenuti da un individuo grazie alla prima legge sono trasmissibili alla prole.

Con queste due leggi Lamarck apriva la strada al concetto di evoluzione e attaccava il concetto tipologico di specie: non più entità fisse ma in continuo cambiamento. Per Lamarck ogni organismo ha una spinta interna verso una progressiva complicazione e perfezionamento (vedi articolo dedicato: Evoluzione e progresso) ma l’interazione con l’ambiente le allontana dalla perfezione.

Darwin e la teoria dell’evoluzione

C .Darwin
C .Darwin dal libro ‘Darwin 1809 2009’ di Niles Eldredge

La teoria dell’evoluzione trova pieno e completo sviluppo nel 1859 con “L’origine delle specie” di Charles Darwin (1809-1882). Ci si aspetterebbe una rigorosa definizione di specie, ma in realtà Darwin in proposito scrive semplicemente: ”Ogni naturalista sa più o meno di cosa si tratta, ma non c’è una definizione che soddisfi tutti”. E allora che cos’è una specie?

Così come l’uomo ha selezionato numerose forme domestiche in funzione delle proprie necessità (selezione artificiale) così la Natura avrebbe selezionato numerose specie (selezione naturale). Per Darwin le varietà sarebbero specie incipienti e l’unica differenza è che sono ancora connesse tra di loro.

Le specie non comparirebbero improvvisamente ma in seguito a numerosi piccoli cambiamenti graduali. Questa visione viene riassunta nell’espressione Natura non facit saltum (la Natura non fa salti). Questa visione gradualista era stata mutuata da Darwin dai Principi di Geologia di Charles Lyell, un geologo convinto che i processi che hanno modellato le forme del paesaggio in passato sono gli stessi che operano ancora oggi. Un fiume che scorre scaverà una montagna, basta dargli tempo…

Il problema delle specie

Con la teoria dell’evoluzione quindi nasce anche anche il problema delle specie: esistono le specie? Come le riconosciamo? Come possiamo definirle?

Le risposte a queste semplici domande sono state moltissime, a seconda del tipo di approccio al problema. Riporto alcune delle definizioni più famose, ma ne esistono moltissime altre (e addirittura c’è chi ha proposto di rinunciare al concetto di specie).

 

Concetto tipologico: la caratteristiche di una specie sono riassumibili in un “tipo” ideale

Concetto morfologico: le specie sono formate da individui con aspetto simile

Concetto evolutivo: linea evolutiva di popolazioni legate da relazione antenato-discendente e distinta da altre linee

Concetto genetico: la più vasta comunità di individui sessuati interfertili che condividono un comune pool genico

Concetto biologico: gruppi di popolazioni naturali interfeconde riproduttivamente isolate da altri gruppi simili

Concetto ecologico: le popolazioni formano i raggruppamenti fenetici distinti che noi riconosciamo come specie, in quanto i processi ecologici ed evolutivi che controllano le modalità di suddivisione delle risorse tendono a produrre raggruppamenti di quel tipo

La definizione biologica

Ernst_Mayr

Sicuramente la definizione di specie più famosa è quella biologica data da Ernst Mayr (1904-2005): insieme di individui interfecondi che possono produrre prole fertile (…e qui ogni maestra porta l’esempio del mulo, nato dall’incrocio di asino e cavallo!).

A un primo sguardo potrebbe sembrare una definizione ottima, in realtà dipende dal campo di applicazione (un paleontologo non può verificare se due fossili sono interfecondi!) e dagli organismi considerati. Il concetto biologico di specie si applica solamente agli organismi a riproduzione sessuale che non sono molti. La maggior parte degli organismi su questo pianeta fa a meno della riproduzione sessuale.

Inoltre: immaginiamo due popolazioni isolate geograficamente. Come facciamo a sapere se appartengono alla stessa specie? Si potrebbe pensare di mettere nella stessa gabbia un maschio e una femmina provenienti dalle due popolazioni e vedere come interagiscono. Ma le condizioni sono artificiali, non rispecchiano ciò che avverrebbe in natura! Per esempio: la tigre (Panthera tigris) e il leone (Panthera leo) in natura sono due specie ben distinte, ma in cattività capita spesso che formino degli ibridi (le femmine sono fertili e i maschi sterili). In condizioni di cattività le specie possono cambiare il loro comportamento.

Un esempio più estremo si ha con l’incrocio tra il cervo rosso (Cervus elaphus) e il cervo di Padre David (Elaphurus davidianus): due specie appartenenti a generi diversi. In natura queste due specie hanno areali disgiunti (il primo è una specie europea, il secondo asiatico) e quindi non si incontrano mai, ma in cattività si incrociano e producono prole fertile.

Un ulteriore esempio per dimostrare quanto il nostro concetto di specie può essere labile: le specie ad anello. Si tratta di popolazioni interfeconde distribuite intorno a una barriera ambientale invalicabile, una volta completato l’anello le due popolazioni (che sono connesse per il tratto precedente) non si riconoscono come appartenenti alla stessa specie ma si comportano come specie differenti. Un esempio sono i gabbiani Larus fuscus e Larus argentatus intorno al circolo polare artico oppure le salamandre del genere Ensatina in California.

Le specie in paleontologia

In paleontologia il problema delle specie ha delle caratteristiche peculiari. Innanzitutto l’approccio è di tipo morfologico: appartengono alla stessa specie tutti gli individui che assomigliano all’olotipo della specie (l’esemplare utilizzato per descrivere la specie la prima volta).

Questo approccio ha il difetto di sottostimare le specie gemelle: specie identiche dal punto di vista morfologico ma perfettamente isolate dal punto di vista riproduttivo (es: specie che si riconoscono in base al canto o in seguito a precisi rituali di corteggiamento).

Inoltre le specie cambiano nel tempo, e così avrò anche il problema di capire dove una specie sfuma nella successiva… Questo in realtà potrebbe essere un falso problema!

Darwin nell’Origine scrive: “ [Il record paleontologico] è un libro del quale si sono conservate solo alcune pagine sparse, nelle quali sono leggibili solo poche righe prese a caso”. Le specie si trasformerebbero lentamente ma, poichè la documentazione fossile è imperfetta, non vediamo le numerose forme intermedie che collegano le varie specie.

Una soluzione a questo problema è stata fornita, nel 1972, da due paleontologi: Niles Eldredge (1945- ) e Stephen J. Gould (1941-2001). Con la loro teoria degli equilibri punteggiati propongono che le specie originino molto velocemente (in termini geologici!) in piccole sottopopolazioni ai margini dell’areale (dette isolati periferici) e che la maggioranza del cambiamento sia concentrato all’atto della speciazione. Per il resto del tempo le specie sono soggette a stasi: piccole variazioni dei caratteri ma senza importanza ai fini dell’evoluzione.

Secondo Gould ed Eldredge non vediamo continue forme intermedie perchè le specie sono stabili per la durata della loro vita.

Questa visione dell’evoluzione si contrappone al gradualismo filetico: le nuove specie originano in seguito alla modificazione dell’antenato nel discendente, coinvolgendo l’intera popolazione e avvenendo in larga parte dell’areale.

Un esempio che ci riguarda da vicino: secondo il gradualismo filetico l’evoluzione umana è stata un lento cammino che ci ha permesso di guadagnare l’evoluzione bipede, con un cervello che gradualmente diventava sempre più grande. Secondo gli equilibri punteggiati, invece, non si tratterebbe di un percorso lineare ma di un contorto diramare di forme diverse (più che un albereo evolutivo un vero e proprio cespuglio di specie!).

I ritrovamenti paleontologici confermano questa visione: non una singola specie alla volta ma molte specie di ominidi presenti contemporaneamente, dove le specie “filglie”, evolutesi in una piccola area ai margini dell’areale, si diffondono e vivono insieme alla specie che le ha originate.

 

Il problema delle specie è estremamente complesso e molte cose non hanno trovato modo di essere esposte. Per chi volesse approfondire consiglio sicuramente il bell’articolo:

Bernardi M. & Minelli A. 2011 Il problema delle specie e la paleontologia: una rassegna introduttiva. Rend. Online Soc. Geol. It., Vol. 13: 2-26.

3 pensieri riguardo “Il concetto di specie”

  1. Anche la teoria di Gould e Elgredge è molto debole in alcuni punti, per esempio, come e quando si verificano questi periodi di stasti e perché? Come vengono regolate le esplosioni radiative? Quali direzioni vettoriali hanno? Sempre il frutto del “caso”? Solo ragione ambientali causa tali “stasi” e “esplosioni radiative” o ci sono alxuni punti critici biologici che raggiunti determinano tali fattori? E con quale modalita? Inoltre non solo un ruolo geografico, paleontologico e biologico sono gli aspetti alla base della speciazione. All’interno di tali categorie, ve ne sono altri, l’incompatibilità fisica (il che non vuol dire genetica), ad esempio a meno di una inseminazione artificiale, in natura un mating è impossibile immaginarlo tra una maschio di bassotto e una femmina di Alano danese, per ragioni di ostacolo anatomico, poi possono esserci fenomi d’isolamento dovuti a fattori psicoetologici e al ciclo biologico delle specie in questione che non sono ecosincronizzati. Inoltre, c’è il discorso del biologo Dobzhansky da cui Mayr trasse spunto, di una inompatibilità o compatibilità genetica, della linea germinale (in termini di antigeni ovocellulari e spermatici, come del citoplasmatici) nell’amfimissi. La teoria cronologica o biostratigrafica ovvero paleontologica ha i suoi aspetti positivi, ma per molti altri è incompleta, forse più del concetto di specie di Myar, a questo va agginta la teoria dell’esoincrocio adattativo di Hammond.
    Certo non c’è una definizione ancora esaustiva di specie ma molte parziali, corrette in diversi aspetti, fragili in altre, ma spesso in tutte si dimenticano fattori come la somazione e la sempre più evidente veridicità della teoria della Selezione Naturale di Darwin, si dovrebbe aggiungere, almeno per alcuni aspetti, la teoria dell’Eredità dei Carattteri Acquisiti del biologo Lamarck, comeinvece è spesso sottaciuto, tento ché anche lo stesso Darwin tentò di fare al termine della sua vita, con la sua Teoria della Pangenesi.
    DrSc Giulinao Russini biologo zoologo-etnologo

    1. Caro Giuliano, innanzitutto grazie per aver visitato scienzafacile e grazie per il commento… Io, sinceramente, faccio un po’ fatica a seguirti forse perchè sono un po’ ignorante nel campo specifico e mi piacerebbe scrivere un articolo esplicativo per ogni argomentazione che metti sul banco!
      In effetti è un problema molto complesso definire davvero una specie e su questo siamo d’accordo tutti!
      E’ bello però provarci, considerando anche la storia che ha portato alle attuali interpretazioni del concetto di specie ed è bello cercare di far capire al pubblico l’importanza di questi concetti per aumentare la comprensione di come funziona la parte organica/vivente del nostro pianeta…
      Grazie e a presto su scienzafacile.it
      Stefano!

  2. Ciao Stefano scusa ho letto ora il tuo post, non mi è giunta nessuna segnalazione per e-mail della tua risposta.
    Concordo con te che non è facile oggi, ma credo anche in futuro, dare una definizione chiara e definitiva di specie, anche perché quando si giunge ad una sua definizione, spesso, avvengono rivoluzioni tali ad opera di diverse discipline biologiche, che portano a confutare totalmente o anche solo in parte, la precedente versione.

    Prova ne è quando si dice che per specie s’intende una popolazioni d’individui (sia piante che animali) i quali sono intrafecondi, producendo prole fertile, ma che per isolamente geografico (speciazione allopatrica), o di altra natura ma non geografica (speciazione simpatrica) non possono essere interfecondi con altre popolazioni, o meglio possono esserlo ma la prole risultante è sterile.

    Ora nel classico esempio del cavallo stallone che feconda un’asina giovenca o fattrice producendo l’ibrido “bardotto”, o viceversa un asino stallone che feconda una cavalla fattrice giovenca producendo un “mulo” ibrido sempre sterile, abbiamo però che nel caso dell’ibrido bardotto, le femmine possono essere occasionalmente fertili.

    I genetisti ci dicono che la sterilità del mulo, sia esso maschio che femmina dipende da un cariotipo avente un numero dispari di coppie di cromosmi (63) determinato dalla somma dalle 31 coppie di cromosomi dell’asino stallone e 32 coppie della femmina fattrice di cavalla, la chiamano “sterilità da poliploidia dispari”.
    Ma la stessa combinazione numerica la si ha nell’incrocio che porta alla nascita del bardotto, dove sebbene raramente, si hanno femmine fertili che ovulano; risorge un vecchio dubbio “J.B.Lamarck”, citoplasma ovvero soma nell’ovocellula, non è che qualcosa che ha a che fare con i plasmageni cioè i geni citoplasmatici, sia necessario alla definizione di specie?

    Come anche della cosiddetta “massima capacità di specie”? Sono biologo ma di formazione zoologo e etnobiogeografo, per cui questi probelmi esulano dalle mie competenze, ma credo che si dovrebbe avere il coraggio di aprire la mente verso qualcosa che non per forza sia codificato e imprintato nel DNA.
    Ciao e grazie Stefano,
    Giuliano

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