Andrea Tessarollo – 18 aprile 2011
E’ con grande onore che scienzafacile.it accoglie tra i suoi guest-bloggers il Geologo Andrea Tessarollo che ci regala questo lavoro spettacolare, molto bello ed esauriente sugli strati e la stratificazione…
Cos’è uno strato? E cos’è la stratificazione?
Qualcuno di voi se lo è mai chiesto? Credo di no, eppure tutti noi sappiamo esattamente di che cosa stiamo parlando. Credo sia una di quelle cose che appaiono talmente banali, che se si cerca di spiegarla si rischia di fare una figuraccia, non riuscendo a trovarne il modo.
Ci state pensando in questo momento? Come potreste definire lo strato? Scommetto che la cosa non vi sia immediata, seppure sia immediato invece immaginare uno strato, una serie di strati e quindi la stratificazione.
Spiegare la cosa è infatti più complessa di quanto lo sia invece mostrare una foto ed indicare “ecco uno strato”, ma proviamoci lo stesso…
Nel corso degli anni sono state date diverse definizioni di “strato”, più o meno articolate, e per questo esiste anche un po’ di confusione sull’argomento.
Per spiegare la cosa, utilizzerò la definizione proposta da Campbell(b), che secondo alcuni(a) risulta la più avanzata.
Innanzi tutto, partendo da un suo schema, anticipiamo quali sono le unità sedimentarie (o livelli sedimentari), che potrebbero essere visibili in un corpo roccioso sedimentario, e la loro gerarchia:
Andando in ordine crescente (quindi dalla più piccola alla più grande), abbiamo per prima la “lamina”: essa è l’unità di sedimentazione di gerarchia inferiore, un sottile livello sedimentario caratterizzato da una granulometria relativamente uniforme1, deposto in un tempo relativamente breve, ma che soprattutto non può essere scomposto in unità minori (se osservato ad occhio nudo). Il suo spessore è in genere millimetrico.
Secondo tale schema poi, più lamine possono essere raggruppate, se esiste una certa loro organizzazione, in “gruppi di lamine”.
Al livello gerarchico superiore, si posiziona lo “strato”, che quindi racchiude in sé le precedenti unità, e che rappresenta l’unità operativa principale nella descrizione dei corpi rocciosi. Il suo spessore va in genere da centimetrico a decimetrico.
Infine, come avviene per le lamine, più strati possono essere raggruppati e quindi definiti come “gruppi di strati”.
Ora che abbiamo definito queste unità, torniamo alle nostre due domande e immaginiamo un corpo roccioso sedimentario: noi tutti intenderemmo come strati gli oggetti (tabulari nel caso più semplice) che sembrano comporlo; E difatti, secondo Campbell, lo strato è proprio l’elemento che rivela la principale suddivisione di un corpo roccioso. Tale suddivisione sarebbe poi la stratificazione.
Guardiamo ad esempio la foto qui sotto: niente di strano, anzi, in essa la stratificazione è fin troppo evidente, e così gli strati.
Guardiamo invece quest’altra foto sotto: beh, tutt’altra cosa; in questo caso dire quali sono gli strati non è per nulla immediato.
Qual è la differenza tra questi due casi? Per capirlo, torniamo un passo indietro.
Cos’è che definisce gli strati e quindi la stratificazione? La risposta è “le superfici di stratificazione”.
E cosa sono queste superfici?
Secondo Campbell le superfici di stratificazione sono superfici deposizionali2 che rivelano la principale suddivisione di un corpo roccioso, la stratificazione appunto.
Queste superfici sarebbero prodotte da interruzioni nella sedimentazione (più o meno lunghe) o da bruschi cambiamenti nelle condizioni deposizionali.
Per esempio, se consideriamo un ambiente marino profondo, caratterizzato dalla deposizione lenta e periodica (per decantazione) di sottili veli di argilla, un brusco cambiamento nelle condizioni deposizionali potrebbe essere il deposito, rapido ed eccezionale, di una torbidite3, costituito da un corpo a granulometria mediamente più grossolana (di solito è presente della sabbia alla base), con spessore che può raggiungere anche diversi metri.
Questa definizione, comunque, non sembra aiutarci molto nel riconoscere una superficie di stratificazione o uno strato.
Allora come si riconosce una superficie di stratificazione e di conseguenza uno strato?
Risulta chiaro che l’identificazione degli strati dipende dal riconoscimento delle superfici di stratificazione, che separano gli strati adiacenti. Per definizione, infatti, ogni strato è delimitato da una superficie di stratificazione inferiore e da una superiore.
È proprio qui, però, che possiamo incontrare delle difficoltà: tali superfici possono essere pronunciate, e quindi facilmente riconoscibili (come nella prima foto), oppure non evidenti, e quindi riconoscibili con difficoltà (come nella seconda foto).
Che cosa rende queste superfici riconoscibili o meno?
A rendere riconoscibili le superfici di stratificazione sono soprattutto le differenze di litologia tra uno strato e l’altro: per esempio, in un’alternanza di arenarie ed argilliti, le superfici di contatto tra le due litologie saranno molto evidenti e facilmente individuabili per il contrasto di granulometria; anche la degradazione meteorica, attaccando con differente intensità le diverse litologie, evidenzierà il passaggio da una litologia all’altra potremo quindi osservare una differente erodibilità (comunemente maggiore per le argilliti) e un differente colore di alterazione. Altri caratteri che potrebbero evidenziare le superfici di stratificazione potrebbero essere il colore stesso dei sedimenti (può variare moltissimo e dipende anche da molti fattori, tra cui soprattutto il colore dei clasti che lo compongono e la presenza di altri componenti o minerali colorati), la presenza di fossili, le strutture sedimentarie.
Alla luce di quanto detto, analizziamo la prima foto, in cui gli strati sono perfettamente visibili. Si vedono chiaramente numerosi strati calcarei, separati da delle fessure di diversa ampiezza. Queste fessure non sono in realtà degli spazi vuoti (e sarebbe ovviamente impossibile in una successione rocciosa avere dei livelli vuoti) ma sono dei sottili livelli argillitici (interstrati) che però, per via della litologia meno tenace, sono stati erosi maggiormente nella parte esposta e che quindi evidenziano, attraverso l’erosione differenziale, il passaggio tra uno strato calcareo ed un altro, che altrimenti sarebbe indistinguibile. Quindi, anche i sottili livelli argillitici potrebbero essere considerati degli strati, seppure sottili, ed ognuna delle “fessure” possiederebbe due superfici di stratificazione. In questo caso infatti, in accordo con quanto dice la definizione di Campbell, le superfici di separazione tra argillite e calcare individuano un brusco cambiamento nel regime deposizionale e sono quindi superfici di stratificazione. Tale cambiamento era qui accompagnato da un netto contrasto di litologia.
Purtroppo però, può accadere che la litologia e le strutture sedimentarie non cambino da uno strato all’altro, e che pertanto l’identificazione di queste superfici possa risultare più difficile.
Inoltre, se prendiamo ad esempio il caso della seconda foto, queste indicazioni non ci aiutano a discriminare l’ordine gerarchico della superficie deposizionale, ovvero se essa sia una superficie di stratificazione (che separa quindi due strati) oppure se sia una superficie deposizionale interna (che separa due lamine o due gruppi di lamine…).
Cosa si fa allora? Purtroppo in questi casi non esiste una semplice regola per distinguere gli strati in modo infallibile, ma la loro corretta identificazione dipenderà dalle nostre conoscenze geologiche e dalla nostra esperienza; Sarà necessario infatti:
- riconoscere l’ambiente di formazione di quei sedimenti ed i processi sedimentari che hanno agito.
- con in mente la definizione di “superficie di stratificazione” e le sue caratteristiche dal punto di vista sedimentologico, si dovranno identificare le possibili superfici di stratificazione e, per mezzo di esse, ricostruire l’organizzazione gerarchica dei livelli sedimentari, l’obiettivo è riconoscere gli strati, possibilmente composti da “gruppi di lamine” o da “lamine” soltanto.
Si tengano inoltre presenti queste poche indicazioni, fornite da Campbell:
- La geometria degli strati dipende solo dall’andamento delle superfici di stratificazione, che li definiscono.
- Lo strato non ha limiti di spessore (né inferiore, né superiore).
- Uno strato può essere composto da una sola litologia oppure da più litologie (per esempio uno strato torbiditico è spesso composto da livelli di arenarie, siltiti e argilliti, organizzati verticalmente).
- Uno strato può contenere gruppi di lamine e/o lamine, oppure può esserne privo (ovvero avere struttura omogenea)
La definizione di Campbell, quindi, pone come fondamentale il riconoscimento delle superfici di stratificazione, su cui poi si basa la ricostruzione dell’organizzazione gerarchica dei livelli sedimentari, che costituiscono il corpo roccioso.
È importante rimarcare come nella sua definizione non esistano limiti di spessore per lo strato e per la lamina: le due unità possono così sovrapporsi in quanto a valore di spessore, ma risultano distinguibili tra loro, dal punto di vista fisico, per via delle diverse caratteristiche di estensione areale e di durata deposizionale. Potremmo dire quindi che non esistono differenze tra una lamina ed uno strato se non quella di avere due scale diverse: la lamina differisce dallo strato per essere un unità di sedimentazione deposta in un intervallo di tempo più breve, solitamente con un’estensione areale più ridotta; una sorta di piccolo strato all’interno dello strato.
Abbiamo quindi descritto “una” delle definizioni, piuttosto complessa, che sono state date nel corso degli anni allo strato.
Per renderci conto di quali siano i vantaggi di una definizione così articolata, mi sembra opportuno esporre una definizione più antica, ma di gran lunga più semplice ed ancora utilizzata…
Questa definizione indica come “strato” un oggetto sedimentario caratterizzato da uno spessore superiore al centimetro e che risulta separabile dagli altri (strati) per mezzo di differenze litologiche: cioè se consideriamo un’alternanza di arenarie e argilliti, lo strato è ciascuno dei livelli di arenaria e ciascuno di quelli di argillite, che supera il centimetro. E se i livelli non superano il centimetro? Allora sarebbero “lamine”.
Non andava bene questa definizione? Per vederlo, mettiamone a confronto i pregi e i difetti di entrambe.
Nella spiegazione che segue, utilizzerò, per rendere la cosa meglio comprensibile a chi non ha dimestichezza con la problematica, un semplice paragone, secondo me molto calzante:
in questo paragone considereremo gli “strati” equivalenti a “libri”, le “lamine” alle “pagine” dei libri ed i “gruppi di lamine” ai “gruppi di pagine” (ovvero ai fascicoli). Un corpo roccioso, costituito da una successione di strati, sarà così facilmente equiparato ad una pigna di libri, mentre le superfici di stratificazione saranno ottimamente rappresentate dai contatti tra le copertine dei libri.
Partiamo dalla seconda definizione, quella più semplice:
Questa regola, fondata sulla differenza litologica e sul limite dimensionale, appare di facile applicazione nella descrizione di un corpo roccioso e sicuramente oggettiva, in quanto, se descritto da persone diverse, darebbe risultati molto simili.
Il limite del centimetro può generare però un problema, ovvero la diversa considerazione degli oggetti sedimentari sulla base di un limite puramente arbitrario, che niente ha a che fare con il processo sedimentario che ha generato la successione. Consideriamo, per esempio, una situazione analoga a quella della foto 1 (nella quale è molto facile identificare gli strati), con la differenza però che i livelli di calcare abbiano spessori variabili da più a meno di 1cm. Secondo tale definizione alcuni dovremmo chiamarli lamine, alcuni strati, sebbene saremmo tutti d’accordo sul fatto che non vi sia differenza tra essi se non quella di avere uno spessore diverso. Il problema è facilmente comprensibile se ricorriamo al nostro paragone: in una pigna di libri, analogamente dovremmo chiamare “pagina” ogni libro che abbia uno spessore inferiore ad un centimetro. Chiaramente questa soluzione non può essere universalmente applicabile: esistono casi di strati molto sottili, così come esistono libri che contano solo poche pagine. In tali casi la “presenza della copertina”=”superficie di stratificazione evidente” ci permetterebbe di riconoscere questa imprecisione. Inoltre potrei avere uno strato che lateralmente cambia di spessore (niente di più facile), e che, guarda caso, passi proprio da meno di 1cm a più di 1 cm: come dovrei chiamarlo? Lamina o strato?
Uno dei vantaggi della definizione di Campbell è quello di risolvere tale problema: lo strato non ha limiti di spessore.
Purtroppo però anche questa non è perfetta: essa infatti è altamente sensibile alla personale interpretazione: per definire uno strato bisogna prima capire il processo sedimentario che ha generato la successione (e questo non è sempre così scontato): due persone che hanno diversa sensibilità e cultura geologica potrebbero dare descrizioni dello stesso ammasso roccioso tra loro sensibilmente diverse.
Per spiegare con il nostro paragone, immaginiamo una pila di libri: sembrerebbe non ci siano problemi nel distinguere un libro dall’altro. Ma consideriamo il caso in cui essi manchino della copertina, ovvero il caso in cui le superfici di stratificazione non siano evidenti. La distinzione dei fascicoli (ovvero dei gruppi di lamine) e delle pagine (lamine) sarebbe ancora possibile, ma come farei in questo modo a capire qual è il limite tra un libro e l’altro? L’unica soluzione sarebbe leggerne il contenuto, ovvero interpretare i sedimenti e fornire una possibile suddivisione degli strati, secondo il processo sedimentario riconosciuto.
E se in questo caso esistesse la possibilità di valutare due possibili diversi processi, ovvero due possibili suddivisioni degli strati? Sarebbe, nel nostro esempio, come leggere i fascicoli del Signore degli Anelli e non sapere se considerarlo un libro unico oppure tre libri: la compagnia dell’anello, le due torri ed il ritorno del re.
Il problema di questa definizione è quindi invece che essa introduce una parte di interpretazione in quello che dovrebbe essere il dato di partenza: la descrizione dell’ammasso roccioso non è più una cosa oggettiva, ma presenta già una deformazione, un punto di vista; se cambia il punto di vista, cambia la descrizione.
Un’ultima domanda potrebbe comprensibilmente sorgere nella vostra testa: Ma c’era bisogno di fare tutta sta difficoltà per identificare questi oggetti? È così importante identificare gli strati?
La risposta è SI; l’importanza dello strato sta nel fatto che esso rappresenta soprattutto un’unità “descrittiva” e poiché spesso in geologia la base di partenza di uno studio è la descrizione di un affioramento roccioso, è necessario che ci sia una condivisa comprensione degli oggetti di cui si parla. E questo è importantissimo nella comunicazione scientifica.
Infatti, per non incorrere in fraintendimenti, alcuni studiosi(a) suggeriscono l’utilizzo del termine “letto” per indicare gli strati nel senso strettamente litologico; qui sotto è visibile un’immagine esplicativa di questa proposta, dove è mostrata l’alternanza tra strati calcarei marini e strati torbiditici. Questi ultimi sono suddivisibili, in base alla litologia, in letti arenacei e letti pelitici.
Note:
1-Granulometria uniforme: quando i granuli che compongono un sedimento hanno tutti (all’incirca) la stessa dimensione.
2-Superficie deposizionale: la superficie che corrisponde all’interfaccia acqua-sedimento, immediatamente prima della sedimentazione di un nuovo spessore di materiale e che quindi ne costituisce il suo limite inferiore. È la superficie sulla quale si deposita il nuovo sedimento, anche detta fondo o fondale negli ambienti idrici.
3-Torbidite: il deposito di una corrente di torbida (un tipo di frana sottomarina), ovvero una corrente di materiale in sospensione, molto turbolento, che scende lungo il pendio. La deposizione del materiale avviene sia durante il suo transito, ma soprattutto durante il suo rallentamento, fino al completo arresto (di solito alla base del pendio).
Bibliografia:
a – Bosellini A., Mutti E., Ricci Lucchi F. (1997): Rocce e successioni sedimentarie – UTET
b – Campbell C.(1967): Lamina, laminaset, bed and bedset. – Sedimentology, 8, p.7-26.
c – Ricci Lucchi F.(1992): Sedimentografia, atlante fotografico delle strutture dei sedimenti – Zanichelli editore.
d – Tucker M.E.(1996): Rocce sedimentarie, guida alla descrizione sugli affioramenti rocciosi – Dario Flaccovio editore.
Cos’è uno strato? E cos’è la stratificazione?
Qualcuno di voi se lo è mai chiesto? Credo di no, eppure tutti noi sappiamo esattamente di che cosa stiamo parlando. Credo sia una di quelle cose che appaiono talmente banali, che se si cerca di spiegarla si rischia di fare una figuraccia, non riuscendo a trovarne il modo.
Ci state pensando in questo momento? Come potreste definire lo strato? Scommetto che la cosa non vi sia immediata, seppure sia immediato invece immaginare uno strato, una serie di strati e quindi la stratificazione.
Spiegare la cosa è infatti più complessa di quanto lo sia invece mostrare una foto ed indicare “ecco uno strato”, ma proviamoci lo stesso…
Nel corso degli anni sono state date diverse definizioni di “strato”, più o meno articolate, e per questo esiste anche un po’ di confusione sull’argomento.
Per spiegare la cosa, utilizzerò la definizione proposta da Campbell(b), che secondo alcuni(a) risulta la più avanzata.
Innanzi tutto, partendo da un suo schema, anticipiamo quali sono le unità sedimentarie (o livelli sedimentari), che potrebbero essere visibili in un corpo roccioso sedimentario, e la loro gerarchia:
Andando in ordine crescente (quindi dalla più piccola alla più grande), abbiamo per prima la “lamina”: essa è l’unità di sedimentazione di gerarchia inferiore, un sottile livello sedimentario caratterizzato da una granulometria relativamente uniforme1, deposto in un tempo relativamente breve, ma che soprattutto non può essere scomposto in unità minori (se osservato ad occhio nudo). Il suo spessore è in genere millimetrico.
Secondo tale schema poi, più lamine possono essere raggruppate, se esiste una certa loro organizzazione, in “gruppi di lamine”.
Al livello gerarchico superiore, si posiziona lo “strato”, che quindi racchiude in sé le precedenti unità, e che rappresenta l’unità operativa principale nella descrizione dei corpi rocciosi. Il suo spessore va in genere da centimetrico a decimetrico.
Infine, come avviene per le lamine, più strati possono essere raggruppati e quindi definiti come “gruppi di strati”.
Immagine 1
Ora che abbiamo definito queste unità, torniamo alle nostre due domande e immaginiamo un corpo roccioso sedimentario: noi tutti intenderemmo come strati gli oggetti (tabulari nel caso più semplice) che sembrano comporlo; E difatti, secondo Campbell, lo strato è proprio l’elemento che rivela la principale suddivisione di un corpo roccioso. Tale suddivisione sarebbe poi la stratificazione.
Guardiamo ad esempio la foto qui sotto: niente di strano, anzi, in essa la stratificazione è fin troppo evidente, e così gli strati.
Foto 1
Guardiamo invece quest’altra foto sotto: beh, tutt’altra cosa; in questo caso dire quali sono gli strati non è per nulla immediato.
Foto 2
Qual è la differenza tra questi due casi? Per capirlo, torniamo un passo indietro.
Cos’è che definisce gli strati e quindi la stratificazione? La risposta è “le superfici di stratificazione”.
E cosa sono queste superfici?
Secondo Campbell le superfici di stratificazione sono superfici deposizionali2 che rivelano la principale suddivisione di un corpo roccioso, la stratificazione appunto.
Queste superfici sarebbero prodotte da interruzioni nella sedimentazione (più o meno lunghe) o da bruschi cambiamenti nelle condizioni deposizionali.
Per esempio, se consideriamo un ambiente marino profondo, caratterizzato dalla deposizione lenta e periodica (per decantazione) di sottili veli di argilla, un brusco cambiamento nelle condizioni deposizionali potrebbe essere il deposito, rapido ed eccezionale, di una torbidite3, costituito da un corpo a granulometria mediamente più grossolana (di solito è presente della sabbia alla base), con spessore che può raggiungere anche diversi metri.
Questa definizione, comunque, non sembra aiutarci molto nel riconoscere una superficie di stratificazione o uno strato.
Allora come si riconosce una superficie di stratificazione e di conseguenza uno strato?
Risulta chiaro che l’identificazione degli strati dipende dal riconoscimento delle superfici di stratificazione, che separano gli strati adiacenti. Per definizione, infatti, ogni strato è delimitato da una superficie di stratificazione inferiore e da una superiore.
È proprio qui, però, che possiamo incontrare delle difficoltà: tali superfici possono essere pronunciate, e quindi facilmente riconoscibili (come nella prima foto), oppure non evidenti, e quindi riconoscibili con difficoltà (come nella seconda foto).
Che cosa rende queste superfici riconoscibili o meno?
A rendere riconoscibili le superfici di stratificazione sono soprattutto le differenze di litologia tra uno strato e l’altro: per esempio, in un’alternanza di arenarie ed argilliti, le superfici di contatto tra le due litologie saranno molto evidenti e facilmente individuabili per il contrasto di granulometria; anche la degradazione meteorica, attaccando con differente intensità le diverse litologie, evidenzierà il passaggio da una litologia all’altra potremo quindi osservare una differente erodibilità (comunemente maggiore per le argilliti) e un differente colore di alterazione. Altri caratteri che potrebbero evidenziare le superfici di stratificazione potrebbero essere il colore stesso dei sedimenti (può variare moltissimo e dipende anche da molti fattori, tra cui soprattutto il colore dei clasti che lo compongono e la presenza di altri componenti o minerali colorati), la presenza di fossili, le strutture sedimentarie.
Alla luce di quanto detto, analizziamo la prima foto, in cui gli strati sono perfettamente visibili. Si vedono chiaramente numerosi strati calcarei, separati da delle fessure di diversa ampiezza. Queste fessure non sono in realtà degli spazi vuoti (e sarebbe ovviamente impossibile in una successione rocciosa avere dei livelli vuoti) ma sono dei sottili livelli argillitici (interstrati) che però, per via della litologia meno tenace, sono stati erosi maggiormente nella parte esposta e che quindi evidenziano, attraverso l’erosione differenziale, il passaggio tra uno strato calcareo ed un altro, che altrimenti sarebbe indistinguibile. Quindi, anche i sottili livelli argillitici potrebbero essere considerati degli strati, seppure sottili, ed ognuna delle “fessure” possiederebbe due superfici di stratificazione. In questo caso infatti, in accordo con quanto dice la definizione di Campbell, le superfici di separazione tra argillite e calcare individuano un brusco cambiamento nel regime deposizionale e sono quindi superfici di stratificazione. Tale cambiamento era qui accompagnato da un netto contrasto di litologia.
Purtroppo però, può accadere che la litologia e le strutture sedimentarie non cambino da uno strato all’altro, e che pertanto l’identificazione di queste superfici possa risultare più difficile.
Inoltre, se prendiamo ad esempio il caso della seconda foto, queste indicazioni non ci aiutano a discriminare l’ordine gerarchico della superficie deposizionale, ovvero se essa sia una superficie di stratificazione (che separa quindi due strati) oppure se sia una superficie deposizionale interna (che separa due lamine o due gruppi di lamine…).
Cosa si fa allora? Purtroppo in questi casi non esiste una semplice regola per distinguere gli strati in modo infallibile, ma la loro corretta identificazione dipenderà dalle nostre conoscenze geologiche e dalla nostra esperienza; Sarà necessario infatti:
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riconoscere l’ambiente di formazione di quei sedimenti ed i processi sedimentari che hanno agito.
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con in mente la definizione di “superficie di stratificazione” e le sue caratteristiche dal punto di vista sedimentologico, si dovrà identificare le possibili superfici di stratificazione e, per mezzo di esse, ricostruire l’organizzazione gerarchica dei livelli sedimentari l’obiettivo è riconoscere gli strati, possibilmente composti da “gruppi di lamine” o da “lamine” soltanto.
Si tengano inoltre presenti queste poche indicazioni, fornite da Campbell:
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La geometria degli strati dipende solo dall’andamento delle superfici di stratificazione, che li definiscono.
-
Lo strato non ha limiti di spessore (né inferiore, né superiore).
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Uno strato può essere composto da una sola litologia oppure da più litologie (per esempio uno strato torbiditico è spesso composto da livelli di arenarie, siltiti e argilliti, organizzati verticalmente).
-
Uno strato può contenere gruppi di lamine e/o lamine, oppure può esserne privo (ovvero avere struttura omogenea)
La definizione di Campbell, quindi, pone come fondamentale il riconoscimento delle superfici di stratificazione, su cui poi si basa la ricostruzione dell’organizzazione gerarchica dei livelli sedimentari, che costituiscono il corpo roccioso.
È importante rimarcare come nella sua definizione non esistano limiti di spessore per lo strato e per la lamina: le due unità possono così sovrapporsi in quanto a valore di spessore, ma risultano distinguibili tra loro, dal punto di vista fisico, per via delle diverse caratteristiche di estensione areale e di durata deposizionale. Potremmo dire quindi che non esistono differenze tra una lamina ed uno strato se non quella di avere due scale diverse: la lamina differisce dallo strato per essere un unità di sedimentazione deposta in un intervallo di tempo più breve, solitamente con un’estensione areale più ridotta; una sorta di piccolo strato all’interno dello strato.
Abbiamo quindi descritto “una” delle definizioni, piuttosto complessa, che sono state date nel corso degli anni allo strato.
Per renderci conto di quali siano i vantaggi di una definizione così articolata, mi sembra opportuno esporre una definizione più antica, ma di gran lunga più semplice ed ancora utilizzata…
Questa definizione indica come “strato” un oggetto sedimentario caratterizzato da uno spessore superiore al centimetro e che risulta separabile dagli altri (strati) per mezzo di differenze litologiche: cioè se consideriamo un’alternanza di arenarie e argilliti, lo strato è ciascuno dei livelli di arenaria e ciascuno di quelli di argillite, che supera il centimetro. E se i livelli non superano il centimetro? Allora sarebbero “lamine”.
Non andava bene questa definizione? Per vederlo, mettiamone a confronto i pregi e i difetti di entrambe.
Nella spiegazione che segue, utilizzerò, per rendere la cosa meglio comprensibile a chi non ha dimestichezza con la problematica, un semplice paragone, secondo me molto calzante:
in questo paragone considereremo gli “strati” equivalenti a “libri”, le “lamine” alle “pagine” dei libri ed i “gruppi di lamine” ai “gruppi di pagine” (ovvero ai fascicoli). Un corpo roccioso, costituito da una successione di strati, sarà così facilmente equiparato ad una pigna di libri, mentre le superfici di stratificazione saranno ottimamente rappresentate dai contatti tra le copertine dei libri.
Partiamo dalla seconda definizione, quella più semplice:
Questa regola, fondata sulla differenza litologica e sul limite dimensionale, appare di facile applicazione nella descrizione di un corpo roccioso e sicuramente oggettiva, in quanto, se descritto da persone diverse, darebbe risultati molto simili.
Il limite del centimetro può generare però un problema, ovvero la diversa considerazione degli oggetti sedimentari sulla base di un limite puramente arbitrario, che niente ha a che fare con il processo sedimentario che ha generato la successione. Consideriamo, per esempio, una situazione analoga a quella della foto 1 (nella quale è molto facile identificare gli strati), con la differenza però che i livelli di calcare abbiano spessori variabili da più a meno di 1cm. Secondo tale definizione alcuni dovremmo chiamarli lamine, alcuni strati, sebbene saremmo tutti d’accordo sul fatto che non vi sia differenza tra essi se non quella di avere uno spessore diverso. Il problema è facilmente comprensibile se ricorriamo al nostro paragone: in una pigna di libri, analogamente dovremmo chiamare “pagina” ogni libro che abbia uno spessore inferiore ad un centimetro. Chiaramente questa soluzione non può essere universalmente applicabile: esistono casi di strati molto sottili, così come esistono libri che contano solo poche pagine. In tali casi la “presenza della copertina”=”superficie di stratificazione evidente” ci permetterebbe di riconoscere questa imprecisione. Inoltre potrei avere uno strato che lateralmente cambia di spessore (niente di più facile), e che, guarda caso, passi proprio da meno di 1cm a più di 1 cm: come dovrei chiamarlo? Lamina o strato?
Uno dei vantaggi della definizione di Campbell è quello di risolvere tale problema: lo strato non ha limiti di spessore.
Purtroppo però anche questa non è perfetta: essa infatti è altamente sensibile alla personale interpretazione: per definire uno strato bisogna prima capire il processo sedimentario che ha generato la successione (e questo non è sempre così scontato): due persone che hanno diversa sensibilità e cultura geologica potrebbero dare descrizioni dello stesso ammasso roccioso tra loro sensibilmente diverse.
Per spiegare con il nostro paragone, immaginiamo una pila di libri: sembrerebbe non ci siano problemi nel distinguere un libro dall’altro. Ma consideriamo il caso in cui essi manchino della copertina, ovvero il caso in cui le superfici di stratificazione non siano evidenti. La distinzione dei fascicoli (ovvero dei gruppi di lamine) e delle pagine (lamine) sarebbe ancora possibile, ma come farei in questo modo a capire qual è il limite tra un libro e l’altro? L’unica soluzione sarebbe leggerne il contenuto, ovvero interpretare i sedimenti e fornire una possibile suddivisione degli strati, secondo il processo sedimentario riconosciuto.
E se in questo caso esistesse la possibilità di valutare due possibili diversi processi, ovvero due possibili suddivisioni degli strati? Sarebbe, nel nostro esempio, come leggere i fascicoli del Signore degli Anelli e non sapere se considerarlo un libro unico oppure tre libri: la compagnia dell’anello, le due torri ed il ritorno del re.
Il problema di questa definizione è quindi invece che essa introduce una parte di interpretazione in quello che dovrebbe essere il dato di partenza: la descrizione dell’ammasso roccioso non è più una cosa oggettiva, ma presenta già una deformazione, un punto di vista; se cambia il punto di vista, cambia la descrizione.
Un’ultima domanda potrebbe comprensibilmente sorgere nella vostra testa: Ma c’era bisogno di fare tutta sta difficoltà per identificare questi oggetti? È così importante identificare gli strati?
La risposta è SI; l’importanza dello strato sta nel fatto che esso rappresenta soprattutto un’unità “descrittiva” e poiché spesso in geologia la base di partenza di uno studio è la descrizione di un affioramento roccioso, è necessario che ci sia una condivisa comprensione degli oggetti di cui si parla. E questo è importantissimo nella comunicazione scientifica.
Infatti, per non incorrere in fraintendimenti, alcuni studiosi(a) suggeriscono l’utilizzo del termine “letto” per indicare gli strati nel senso strettamente litologico; qui sotto è visibile un’immagine esplicativa di questa proposta, dove è mostrata l’alternanza tra strati calcarei marini e strati torbiditici. Questi ultimi sono suddivisibili, in base alla litologia, in letti arenacei e letti pelitici.
Immagine 2
Note:
1-Granulometria uniforme: quando i granuli che compongono un sedimento hanno tutti (all’incirca) la stessa dimensione.
2-Superficie deposizionale: la superficie che corrisponde all’interfaccia acqua-sedimento, immediatamente prima della sedimentazione di un nuovo spessore di materiale e che quindi ne costituisce il suo limite inferiore. È la superficie sulla quale si deposita il nuovo sedimento, anche detta fondo o fondale negli ambienti idrici.
3-Torbidite: il deposito di una corrente di torbida (un tipo di frana sottomarina), ovvero una corrente di materiale in sospensione, molto turbolento, che scende lungo il pendio. La deposizione del materiale avviene sia durante il suo transito, ma soprattutto durante il suo rallentamento, fino al completo arresto (di solito alla base del pendio).
Bibliografia:
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Bosellini A., Mutti E., Ricci Lucchi F. (1997): Rocce e successioni sedimentarie – UTET
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Campbell C.(1967): Lamina, laminaset, bed and bedset. – Sedimentology, 8, p.7-26.
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Ricci Lucchi F.(1992): Sedimentografia, atlante fotografico delle strutture dei sedimenti – Zanichelli editore.
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Tucker M.E.(1996): Rocce sedimentarie, guida alla descrizione sugli affioramenti rocciosi – Dario Flaccovio editore.